L'insegnamento
del buddhismo sulla morte
di Corrado Pensa
Il
brano che pubblichiamo è la trascrizione di
un discorso tenuto a Milano il 10 febbraio 1999 in
occasione della presentazione del libro "Chi
muore?" di Stephen Levine.
Il
tema di questa sera è una riflessione sull'insegnamento
del Buddha sulla morte, che è stata stimolata
dalla pubblicazione del libro Chi muore? di Stephen
Levine, autore che si è occupato a lungo di meditazione
e che, da un certo momento in poi, si è dedicato
all'assistenza ai malati terminali, con seminari molto
apprezzati, rivolti sia a persone che stanno vicino
a malati terminali, sia ai malati stessi. Dal materiale
proveniente da questi seminari è nato questo
libro tradotto adesso anche in italiano.
Quindi, faremo questa chiacchierata facendo la spola
tra il Buddha e Stephen Levine, considerando entrambi
i modi, quello antico e classico del Buddha e quello
contemporaneo di Stephen Levine.
Comincerei da una citazione di un autore più
recente di Stephen Levine, Rodney Smith, che è
anche lui insegnante di meditazione e direttore di una
casa per malati terminali negli Stati Uniti. Il libro
di Rodney si chiama 'Lezioni dai morenti'. In un capitolo
di questo libro, leggiamo: "In una delle aeree
più violenta e degradata della città,
viveva Roxane, una donna simpaticissima. Anche lei si
stava avvicinando alla morte. Ricordo che nel bel mezzo
del suo soggiorno, a casa sua, c'era un'apertura nel
pavimento, e da lì entravano e uscivano polli
e galline che stavano sotto la casa e Roxane, quando
ancora ne aveva la forza, li scacciava con una scopa.
Io andavo molto volentieri a fare visita a Roxane, perché
Roxane irraggiava fiducia, umorismo e calore. La sua
accettazione della morte era straordinaria. Ogni volta
che la salutavo, mi sentivo più fresco, come
se lei mi avesse dato qualcosa che andava al di là
della visita. Roxane sapeva qualcosa sul morire che
io non sapevo, perciò mi sorprendevo a voler
imparare da lei, anche se ero io ad avere il ruolo di
assistente professionista. Dopo parecchie settimane,
le chiesi come avesse risolto la sua morte, e come potesse
starsene così tranquilla e in pace. Roxane mi
guardò con un'espressione serena e senza tempo
e mi disse: "Mio caro, la morte non mi spaventa
più. Due dei miei figli sono morti tra le mie
braccia. Ho potuto guardare la morte negli occhi e i
suoi occhi sono gentili".
Dunque, siamo davanti a una dimensione di amicizia per
la morte. È quella stessa amicizia che sentiamo
risuonare in grandi autori spirituali, cito per esempio
la maestra vivente Vimala Thakar: "Non c'è
miglior amico della morte. È il grande, il supremo
Amico. Il grande Amico ci aspetta alla porta. Ricorda
questo e tutto il resto sarà perfettamente semplice
e facile". Anche qui, allora, la morte vista in
una luce del tutto diversa da quella luce sinistra del
cupo falciatore con la clessidra, che per tanti secoli
è stata la raffigurazione standard della morte.
L'amicizia per la morte come garanzia definitiva di
nutrire amicizia per la vita tutta intera, dunque garanzia
di quell'amore incondizionato che è l'altra faccia
della sapienza. L'esempio di Roxane è bello e
incoraggiante, perché ci mostra dal vivo, in
un contesto molto domestico e lontano da bagliori spirituali,
come questo potenziale positivo malgrado tutto, lo possiamo
chiamare così, sia dentro di noi. In genere,
occorre un lungo lavoro interiore per farlo emergere,
ma a volte ci sono o delle predisposizioni personali
particolarmente forti o degli incidenti, la morte di
una persona cara, la propria morte, che lo portano in
superficie, con sorpresa della stessa persona. Inutile
dire che ben più spesso la morte è vissuta
non come amica, bensì come il nemico più
grande e assoluto.
Vediamo un paio di casi nelle scritture buddhiste. In
questi due casi che considereremo, il punto di partenza
è proprio un'avversione incondizionata nei confronti
della morte. Sono due donne. La prima si chiama Patachara
e le scritture descrivono la sua storia drammaticissima.
In viaggio con il marito e due figli, il marito muore,
perché morso da un serpente. Lei rimane con i
due figli, ma il più grande viene travolto da
un fiume in piena, il più piccolo viene portato
via da un rapace. Questo avviene durante un viaggio
in cui Patachara va a trovare i genitori e il fratello.
Mentre, avendo perduto il marito e i figli, si dirige
verso la casa dei genitori, incontra delle persone che
provengono dal villaggio della sua famiglia, dal quale
si leva un'enorme colonna di fumo, che le spiegano che
una terribile tempesta ha travolto il villaggio e quel
fumo è il fumo di una grande pira funeraria sulla
quale giacciono anche i genitori e il fratello. Patachara
sta per impazzire. Le consigliano di rivolgersi al Buddha
che si trova nelle vicinanze. Il Buddha, in questa occasione,
tocca un tema che per noi occidentali o è lontano
o è vicino in maniera superficiale, il tema del
karma, delle vite passate. Il Buddha dice a Patachara:
"Pensi che sia la prima volta che piangi per la
morte di qualcuno? Ti è successo moltissime volte,
talmente tante che per accogliere le tue lacrime non
basterebbero i quattro oceani". Un'immagine indubbiamente
forte che c'è spesso nelle scritture canoniche
del buddhismo, quando si parla del dolore che abbiamo
accumulato in una serie infinita di esistenze precedenti,
le lacrime che vengono da questo dolore, si dice, non
basterebbero a colmare i quattro oceani della cosmologia
dell'epoca.
In altri termini: qual è il succo di questo insegnamento?
È l'affermazione del carattere universale, comune
e continuo della morte. Ti è successo tante volte
e succede a tutti tante volte, succede in continuazione.
Questo insegnamento così apparentemente semplice
circa l'universalità e il carattere comune e
continuo della morte, veicolato da un maestro della
portata del Buddha, fa sì che qualcosa si sciolga
nella disperatissima Patachara e le scritture descrivono
che proprio in quel momento lei compie un salto, il
primo stadio della liberazione. Dall'abisso di dolore,
attraverso questo insegnamento, impartito dalla persona
giusta, al momento giusto, lei ha questo ribaltamento
e si trova in uno stato di prima liberazione, quello
che si chiama l'entrata nella corrente.
L'altro caso è quello di Kisagotami. Kisagotami
ha perso il suo bambino, ma non lo accetta assolutamente,
per cui si aggira con il corpo del bambino morto e chiede
a tutti un rimedio per riportarlo in vita. Anche lei
viene indirizzata al Buddha. E il Buddha le dice: "Sì,
io ho questo rimedio, ma perché possa funzionare,
tu mi devi portare un grano di senape bianca e questo
grano di senape bianca deve venire da una casa in cui
non c'è stata nessuna morte". E si trattava
di case di una cultura tradizionale in cui si vive per
generazioni. Kisagotami comincia ad andare in giro e
naturalmente si sente rispondere regolarmente: "In
questa casa contiamo un numero di morti maggiore che
il numero di vivi". Quindi, a poco a poco, sentendosi
rispondere in questo modo, Kisagotami è come
se ritornasse in sé, si dà pace e seppellisce
il suo bambino. Di nuovo, parla col Buddha che le sottolinea
il carattere universale, naturale della morte. E anche
qui le scritture dicono: "Kisagotami, ascoltando
il Buddha, compie un salto". Di nuovo dalla disperazione
al primo grado della liberazione. La realizzazione dell'universalità,
della naturalezza, dell'impersonalità della morte.
Perché impersonalità? È diverso
il vederla in questa prospettiva piuttosto che viverla,
come comprensibilmente succede, ossessivamente, come
un fatto unico. È il contrario, l'insegnamento
dice: "Tutto è fuorché un fatto unico".
Ma l'insegnamento riesce a penetrare, non rimane a livello
teorico, che non sortirebbe alcun effetto. C'è,
cioè, una realizzazione, in questi due casi,
del carattere assolutamente universale e naturale della
morte. Cosa significa? Una radicale accettazione della
morte.
Ora, conviene rivolgerci ad alcuni insegnamenti del
Buddha sulla meditazione in relazione alla morte. La
pratica in questione si chiama in lingua pali: "Marana
sati", marana significa morte, ha la stessa
radice di morte e sati, oltre al significato di consapevolezza,
in questo caso conserva il significato di ricordo e
riflessione. Proprio come il Memento mori della
tradizione occidentale. Ricordarsi della morte. Tant'è
vero che la pratica più semplice della marana
sat', consiste nel riportarsi alla mente la frase:
"Marana vavissati", che vuol dire "Ci
sarà la morte", "Arriverà la
morte". Solo questa frase: "Marana vavissati",
'vavissati', il futuro del verbo essere.
Ricordarsi della morte, riflettere sulla morte, essere
consapevoli delle proprie reazioni di fronte alla morte.
Ci viene detto in diversi luoghi delle scritture, con
una certa enfasi, che, se la marana sati, la
meditazione sulla morte è ben sviluppata, è
ben addestrata, ciò porterà molto frutto
e molto beneficio. E si va nei particolari di questi
frutti e benefici, dicendo che questa potente meditazione
aiuta l'accesso al senza morte. Alla dimensione che
non nasce e che non muore, l'assoluto, l'incondizionato.
Sentiamo su questo argomento Stephen Levine. Vorrei
aggiungere che uno dei pregi di Levine è che
aiuta a tradurre in un linguaggio e in una sensibilità
contemporanea antichi insegnamenti. Si rifà infatti
a maestri di varie tradizioni, non tanto nello scrivere
il libro, quanto nello svolgere il suo lavoro di assistente
ai processi di morte. "Il corpo muore, - dice Levine
- la mente cambia di continuo, ma in qualche modo, dietro
tutto ciò vi è una presenza che qualcuno
chiama il 'senza morte', che è immutabile, che
è semplicemente ciò che è. Nascere
pienamente significa entrare in contatto con esso, sperimentare
anche per un solo istante la vastità che esiste
al di là della nascita e della morte, emergere
in un mondo di paradosso e di mistero senza altri strumenti
se non la consapevolezza e l'amore".
Vorrei ricordare il contributo di Krishnamurti. Riassumendo
una serie di osservazioni che Krishnamurti fa sulla
morte, ecco che cosa emerge: "Noi non accettiamo
la morte, perché la mente è abituata e
compulsivamente dedita ad accumulare, sia sul versante
esterno sia sul versante interno, per esempio accumulare
esperienze spirituali. Questa accumulazione porta a
pensare sempre in termini di tempo, a essere schiavi
del tempo. Solo la mente che è libera da questo
perseguire avidamente tutte le possibili forme di sicurezza
o pseudosicurezza, la mente che è libera dal
desiderio di immortalità personale, è
la mente capace di conoscere che cos'è l'immortalità".
O il senza morte, lamata dhamma, per usare il
linguaggio buddhista.
Sono parole profonde che vanno al cuore, sia della pratica
spirituale in generale, sia della pratica spirituale
relativa alla morte. Perché in Krishnamurti,
come nel Buddha, dire pratica spirituale significa automaticamente
dire pratica sulla morte e, al contrario, dire pratica
sulla morte significa dire pratica spirituale. Prima
di considerare più da vicino la meditazione sulla
morte nel Buddha, vorrei osservare che a volte il ricordo
della morte la marana sati è deliberatamente
evocato per suscitare un senso di urgenza spirituale.
Andiamo alle scritture e nel Samyutta Nykaia, adesso
tradotto anche in italiano, leggiamo che un giorno un
re dell'epoca, il re Pasenadi, va a rendere visita al
Buddha. E il Buddha gli chiede: "Vostra Maestà,
che cosa vi ha portato qui a metà del pomeriggio
e che cosa stavate facendo?". Pasenadi risponde:
"Oh, mi occupavo di quelle cose di cui si occupano
i guerrieri e i re, ossia l'intossicazione per il potere
e l'avida ricerca di tutti i possibili piaceri sensoriali".
Evidentemente, a Pasenadi non mancava la sincerità.
Il Buddha gli dice: "Immagina, o re, che una persona
molto affidabile arrivi di corsa, annunciando che da
est una montagna alta fino a toccare le nubi sta avanzando,
travolgendo e distruggendo tutto ciò che incontra
sul suo cammino. E immagina che questa persona ti dicesse:
'La situazione è questa, fai tutto quello che
pensi di dover fare'". E questo medesimo esempio
è ripetuto con altre tre persone, una che proviene
da ovest, una che proviene da nord, una che proviene
da sud. Quindi, lo scenario è di quattro montagne
alte fino alle nubi che avanzano chiudendo. "Allora,
Vostra Maestà, - domanda il Buddha - che cosa
risponderesti?" E Pasenadi risponde: "Se questa
è la situazione, se questo è il pericolo,
allora la cosa da fare è vivere una vita secondo
il Dharma, è perseguire subito il bene".
E il Buddha dice: "Bene, Maestà, ti assicuro
che la morte sta avanzando verso di te. Che cosa pensi
che sia giusto fare?". Pasenadi non può
che rispondere: "Perseguire il Dharma, cercare
subito il bene".
A volte, mi è sembrato che questa potente immagine
delle quattro montagne che ci chiudono, a meno che non
sia ansiogena, possa suscitarci un desiderio di urgenza
spirituale, di prendere rifugio nel lavoro interiore,
cioé di vedere l'importanza relativa di questo
e quello e di vedere invece quello che conta, perché
le quattro montagne si stanno effettivamente avvicinando.
Allora, modalità della marana sati, della
meditazione sulla morte: a me sembra che possiamo parlare
di pratiche specifiche e pratiche non specifiche, vale
a dire che ci sono delle pratiche che hanno la morte
come oggetto, mentre in altre situazioni ci troviamo
davanti all'esortazione di praticare secondo i modi
comuni della pratica, in punto di morte, cioè
non viene data una pratica specifica, semplicemente
si ricorda l'importanza di praticare, perché
moriamo, senza un riferimento specifico, affrontando
la morte con i soliti strumenti della pratica insegnata
dal Buddha, dunque la consapevolezza, la comprenione,
la compassione. Quella più semplice e molto profonda
tra le pratiche specifiche è quella di ripetersi
"ci sarà la morte", marana vavissati.
Un testo importante, successivo ai discorsi del Buddha,
il 'Visuddhimagga', un commentario del V secolo dopo
Cristo, aggiunge che questa frase che siamo invitati
a ripeterci mentalmente, è una frase che va detta
con attenzione, con comprensione e con un senso di urgenza,
non è una frase alla quale va imputato qualche
magico valore per la semplice ripetizione. A questo
proposito, c'è un avvertimento da fare, se noi
siamo depressi, queste pratiche sono controindicate.
Vale a dire, invece di suscitare un sostanziale rasserenamento
e accettazione, hanno un effetto contrario, cioé
quello di suscitare ulteriore depressione. Se siamo
depressi, faremo pratiche, per esempio, nel segno della
benevolenza, dell'amore universale, di quella che in
lingua pali si chiama metta, ad alte dosi, e
questo ci farà molto bene, a meno che la depressione
non ci impedisca, con tipica modalità autodistruttiva,
di fare quello che ci fa bene. E quando siamo, in grossa
misura, usciti dalla depressione, allora potremo avvicinarci
al tema della morte.
Un' altra pratica specifica importante è la pratica
dei cinque ricordi o cinque fatti: io sono soggetto
all'invecchiamento, non sono al di là dell'invecchiamento;
io sono soggetto alla malattia, non sono al di là
della malattia; io sono soggetto alla morte, non sono
al di là della morte; io sarò inevitabilmente
separato da tutto ciò che mi è caro; io
raccolgo gli effetti delle mie azioni. Questi sono i
cinque fatti o i cinque ricordi. Da notare che l'ultimo
ricordo, io raccolgo gli effetti delle mie azioni, non
ha bisogno di essere pensato in un contesto di vite
passate o vite future, basta pensare alle azioni e agli
effetti delle azioni compiute in questi giorni, in questi
mesi, in questi anni, in questa vita, azioni mentali,
azioni vocali, azioni fisiche. A cosa servono i cinque
ricordi? A familiarizzarci con la verità, mettendo
l'accento sul familiarizzarci, più che sulla
verità. Perché siamo tutti d'accordo che
questa sia la verità, quanto a volercisi familiarizzare,
è un altro discorso. Questo è il contrario
quindi dell'ignorare, negare, rimuovere questi cinque
fatti. La psicologia contemporanea ci insegna che, se
noi neghiamo e rimuoviamo, questo non diminuirà
la sofferenza, ma la accrescerà. Ci ritroveremo
per esempio, con un'ansia diffusa di cui non sappiamo
l'origine, ci troveremo a rispondere in maniera ansiosissima
davanti a cose di piccola rilevanza, perché abbiamo
messo sotto. Il 'familiarizzarci con' è il contrario
del mettere sotto. Sono pratiche da fare in maniera
periodica, ripetuta, cosciente, vigile. Allora, come
si lavora, una volta fatto il riconoscimento dei cinque
fatti fondamentali? Prendiamo il ricordo, o il fatto,
'io sono soggetto all'invecchiamento'. Il testo ci dice
che è facile essere ubriachi di giovinezza, anzi
dice che la tipica ubriacatura della giovinezza è
quella di essere ubriachi di giovinezza, e quindi essere
completamente ciechi a questo fatto. Il testo continua
dicendo che io, riscontrando in me questa ubriacatura
che mi porta ad agire ciecamente, facendo come se non
esistessero i cinque fatti, porto spesso la consapevolezza
e la comprensione su questo squilibrio, su questa ubriacatura,
su questo non voler vedere. Notate: porto spesso consapevolezza
e comprensione, cioé la punta di diamante della
pratica insegnata dal Buddha: sati-panna, consapevolezza
e comprensione. Cioé sento questo movimento di
squilibrio e non accantono la consapevolezza, al contrario
la risveglio ulteriormente e ce la porto sopra, spesso.
Molti abbandoni di queste pratiche vengono dalla mancanza
di quello 'spesso', cioé le persone provano qualche
volta e dopo di che dicono: "Non funziona, non
è come me l'aspettavo": la chiave è
nello 'spesso'.
Succede, ci dice la tradizione, che questa ubriacatura
di giovinezza, che accieca, o scompare o diminuisce.
Un grosso inquinante viene seriamente intaccato dalla
pratica spirituale, dal fatto di riconoscerlo, di non
ignorarlo, negarlo, e quindi riconoscerlo e riconoscerlo
ancora con tersa consapevolezza. Osserviamo che è
un misto di pratica specifica e non, infatti i temi
sono relativi alla morte, ma la pratica usata non è
quella del ripetersi: 'la morte ci sarà', ma
è la pratica standard di consapevolezza e di
comprensione. Questa medesima procedura che abbiamo
nominato a proposito del primo fatto viene ripetuta
per ognuno degli altri. In ognuno, ci mettiamo davanti
al nostro atteggiamento corrente e ci portiamo sopra,
dopo aver fatto quel riconoscimento, la consapevolezza.
Allora, rendiamoci conto che là dove si dice
che questo atteggiamento diminuisce o scompare, si parla
di un risultato enorme. Perché è una modificazione
in profondità di qualcosa di profondamente abituale.
Stiamo parlando di un crescendo di libertà dalla
paura e dall'attaccamento di tutti i tipi. Come è
stato detto da qualcuno: "Stiamo facendo risplendere
la luce della morte sulla vita".
Ma questi testi che ci parlano dei cinque fatti non
si fermano qui, c'è un sigillo e questo sigillo
è la realizzazione della universalità
della morte. Infatti, la parte finale di questa meditazione
sui cinque fatti è che si ripassano i cinque
fatti, dicendo su ognuno: "Io non sono il solo
a essere soggetto a vecchiaia, malattia e morte. Non
capita solo a me di essere soggetto a vecchiaia, malattia
e morte". Qualcuno forse sarà perplesso,
pensa:"Lo sapevamo". Il fatto è che
lo sappiamo e non lo sappiamo. Lo sappiamo, ma non è
in circolo questa incredibile interconnessione, comunanza,
universalità della morte. Quindi, di nuovo, il
disincapsulamento dall'io-mio e l'accesso a questa universalità,
naturalezza, impersonalità della morte. È
liberante, non è un fatto personale, personalistico,
unico; è un fatto universale, naturale, impersonale.
Certo questa prospettiva completamente diversa dalla
prospettiva nella quale ci troviamo in genere richiede
un tirocinio, un lavoro; a meno che non si abbiano quelle
predisposizioni speciali che hanno persone come Roxane.
Vediamo ancora un esempio di esortazione alla pratica
del Dharma in punto di morte. C'è un laico molto
famoso e molto generoso, Anatapindika, che è
gravemente malato. Allora, Sariputta - uno dei discepoli
più importanti del Buddha, considerato il più
saggio, insieme con Ananda, che è il fedele assistente
del Buddha - gli chiede: "Come stai, Anatapindika?".
"Male". risponde Anatapindika. "Ma i
dolori diventano più forti o meno forti?"
"Più forti" risponde Anatapindika.
E ogni volta che gli rifanno la domanda, risponde: "Ancora
più forti". "Allora, - gli dicono Sariputta
e Ananda - devi praticare il non-attaccamento riguardo
ai sensi, riguardo alla mente, riguardo alla percezione
che i sensi e la mente generano, riguardo alla sensazione,
piacevole o spiacevole, che viene dalla percezione,
riguardo a emozioni, stati d'animo, che vengono in presenza
della percezione e della sensazione. Tu devi esercitare
il non-attaccamento nei confronti di tutto questo".
Siamo di nuovo di fronte a un'ingiunzione di pratica
esattamente uguale all'ingiunzione di pratica di base,
solo che viene data in punto di morte: pervenire al
non-attaccamento, cioé all'equanimità,
che è la fonte della saggezza e della compassione,
ossia le due ali della liberazione. Lavorare minutamente,
dunque, sull'attaccamento che si genera attraverso i
sensi e la mente. Poco dopo, Anatapindika morirà
e, come ci viene detto, ottiene la rinascita in un paradiso.
È interessante osservare che Anatapindika piange
quando riceve questa istruzione e dice: " Io questa
istruzione non l'avevo mai sentita". E Sariputta
gli risponde: "Non l'hai mai sentita perché
questa istruzione noi, finora, l'abbiamo data soltanto
a monaci". Al che, Anatapindika dice: "La
dovreste dare anche ai laici, tra i quali ci sono persone
con poca polvere sugli occhi": cioé ricettive.
Probabilmente, siamo davanti a una svolta della comunità
originaria buddhista, quando si decide di aprire anche
la parte più profonda della pratica al mondo
dei laici praticanti.
Un'altra occasione: siamo sempre davanti a un insegnamento
di tipo aspecifico. C'è il laico Nakulapita,
malato gravemente, e si teme che sia arrivata la sua
ora. La moglie gli ricorda che il Buddha giudica molto
negativo coltivare preoccupazioni in punto di morte
e infatti Nakulapita è molto preoccupato. È
preoccupato di cosa succederà alla moglie, di
cosa succederà al figlio, di questo, di quell'altro.
La moglie viene presentata come una donna molto calma
e molto forte, che gli scioglie le preoccupazioni ad
una ad una. Questo produce nel marito un tale rilassamento
che guarisce.
L'insegnamento è, anche qui, a tutto campo: la
preoccupazione, ossia la proliferazione mentale da paura
è un inquinante mentale in qualsiasi momento,
non soltanto quando si muore. In generale, viene sottolineato
nei testi come la paura e il terrore di morire abitano
là dove sono ancora forti gli attaccamenti, mentre
la paura di morire recede a mano a mano che avanza l'equanimità.
In questo tipo di letteratura, di cui Levine è
un esempio, ci sono molte storie di morti avvenute in
grande pace. Possiamo scegliere un esempio forte riportato
dallo stesso Levine: la morte del grande santo indù
Ramana Maharshi. "Quando Ramana stava morendo di
cancro, i suoi devoti gli chiesero di operare una guarigione
su se stesso". "Perché, fratelli? Questo
corpo è sfatto, perché aggrapparcisi?
Perché costringerlo a durare?" risponde
Ramana. Al che, loro implorarono: "Maestro, ti
preghiamo, non lasciarci". Guardandoli come si
guardano dei figli, Ramana rispose: "Lasciarvi?
E dove sarebbe il luogo dove vado?". Giovedì
13 aprile, un medico portò a Ramana un sedativo,
per alleviargli la congestione ai polmoni, ma lui lo
rifiutò. "Non è necessario, tutto
accadrà come deve entro due giorni". Al
tramonto del giorno successivo, Ramana chiese a quelli
che lo assistevano di aiutarlo a mettersi seduto. Sapevano
che ogni movimento, anche solo toccarlo, era per lui
doloroso, ma egli disse loro di non preoccuparsi e rimase
seduto con uno degli assistenti che gli reggeva la testa.
Un dottore fece per somministrargli l'ossigeno, ma Ramana
con un gesto lo allontanò. D'un tratto, un gruppo
di devoti seduti fuori nella veranda cominciò
a cantare 'Arunachala Shiva'. All'udire il suo canto
preferito, Ramana aprì gli occhi che brillarono,
sorrise con indescrivibile dolcezza, lacrime di benedizione
gli scesero lungo le guance. Ancora un respiro profondo
e poi niente più. Non ci fu lotta, non ci fu
spasimo, nessun altro segno di morte, solo, il respiro
successivo non venne."
Ora, addentriamoci più in particolare nel libro
di Levine, poi ritorniamo al buddhismo. Anche nel libro
di Levine troviamo tanta pratica generale, non specifica,
(secondo me è un buon libro di Dharma), e pratica
specificatamente rivolta alla morte. Allora, dall'insegnamento
di Levine, riassumendo, possiamo estrarre un assioma
fondamentale, che suona così: "Tutto ciò
che ci prepara alla morte accresce la vita. E, d'altra
parte, tutto ciò che rende difficile morire,
accettare la morte, aprirsi alla morte, è esattamente
ciò che rende difficile vivere e aprirsi alla
vita. Allora, in questa pratica di preparazione alla
morte, che è anche dare vita alla vita, sarà
fondamentale entrare in contatto consapevole con ciò
che è spiacevole, invece di ignorarlo, o agirlo,
o alimentarlo ciecamente. La pratica più utile
è coltivare l'apertura verso ciò che è
spiacevole, riconoscere in noi la resistenza e la paura
nei confronti dello spiacevole. E invece fare in modo
di rilassarci e di aprirci davanti allo spiacevole.
Lasciarlo fluttuare libero, lasciarlo andare. Tenete
presente che se scrivete un elenco delle vostre resistenze
e delle vostre opinioni, questa sarebbe una descrizione
quasi completa della vostra personalità. Se vi
identificate con questa personalità, voi non
fate altro che amplificare la paura della morte, vale
a dire la perdita immaginaria di una individualità
immaginaria." Levine non sta dicendo che non esiste
nulla, sta dicendo che c'è una fabbricazione,
un attaccamento a questa fabbricazione, che, se noi
ne facciamo a meno, è molto meglio per tutti,
a cominciare da noi. "Allora, l'apertura a ciò
che è spiacevole, in luogo dell'assidua resistenza
a ciò che è spiacevole. Questo è
facile da enunciare, ma, di nuovo, come molti sanno,
è meno facile da capire, applicare e realizzare.
Che preparativi avete fatto per aprirvi a una vita interiore
talmente piena che qualsiasi cosa accade può
essere usata come mezzo per arricchire la vostra attenzione?"
Se qualsiasi cosa accade diventa mezzo per arricchire
la consapevlezza e i suoi frutti, in noi e fuori di
noi, allora tutto è grazia, o, con Madre Teresa
di Calcutta, possiamo dire: "Ogni cosa è
migliore". Perché tutto sollecita questo
valore di fondo che è la pratica interiore e
tra l'altro ciò che è spiacevole, se si
impara a farlo, è più potente nel creare
questa apertura di ciò che è piacevole.
Questa è una rivoluzione copernicana, perché
noi seguiamo il piacevole e cerchiamo di evitare lo
spiacevole. Non si parla di cercare lo spiacevole, ma
si tratta di cambiare la nostra relazione con lo spiacevole.
Preferiremo sempre il piacevole, ma cambiare la relazione
con lo spiacevole cambia la vita e cambia anche la relazione
col piacevole, non più in chiave di attaccamento,
ma di apprezzamento.
Dice ancora Stephen Levine: "Tanto più vi
aprite alla vita, tanto meno la morte vi diventa nemica".
E la vita è fatta di parecchie cose spiacevoli,
ma siamo chiusi davanti ad esse. "Quando cominciate
ad usare la morte come mezzo per focalizzarvi sulla
vita, tutto diventa semplicemente così com'è,
un'occasione straordinaria per essere davvero vivi.
Perché aspettare che il dolore sia troppo intenso,
per lavorare a unificare e raccogliere la mente? Perché
non usare ogni momento di malattia, ogni influenza,
ogni raffreddore, ogni lieve ferita, come momento per
lasciare andare, per aprirsi all'intensità che
si manifesta? In ogni dolore o malattia vedo che c'è
la libertà, se pratico, per aprirsi ad essa.
Allorché mi apro a questi eventi, così
come ci si apre a un Maestro, allora essi non contribuiscono
più a rafforzare in me l'identificazione con
il ruolo di colui, colei che soffre, con la vittima
delle circostanze, ma, se faccio questo, io sono semplicemente
ciò che sono e l'evento è semplicemente
ciò che è". Sono parole semplici,
per descrivere qualcosa di molto grosso, cioè
l'essere andati al di là dell'autocommiserazione.
Torniamo al buddhismo e soffermiamoci brevemente sulla
legge del karma. Perché, se parliamo dell'insegnamento
del Buddha sulla morte, fare come se non ci fosse l'insegnamento
relativo al karma, sarebbe strano. Io personalmente
mi sentirei in imbarazzo se andassi in giro assicurando
le persone dell'esistenza del karma di vite passate
o future. Però, non mi viene nemmeno in mente
di assicurare le persone che la faccenda del karma è
una credenza folcloristica. A me la questione sembra
profondamente interessante, ma mi sento più a
mio agio se parlo di ipotesi del karma. Allora, se l'ipotesi
del karma, così come è formulata negli
insegnamenti buddhisti, è vera, questo implica
che i miei nodi interiori, per esempio la mia rabbia,
non si estinguono con l'estinguersi del mio corpo, alla
morte, ma in qualche modo restano in circolo e ricompaiono
da qualche altra parte. Ci sarà un essere vivente
che ne sarà il portatore. Un esempio usato è
quello di un ramo che brucia. Il fuoco, a un certo punto,
lascia il ramo bruciato e si appicca a un altro ramo,
così il karma passerebbe da un individuo che
muore a un individuo che nasce. Questa è la concezione
buddhista della scuola antica, che si esprime sinteticamente,
come avviene nel Visuddhimagga, affermando che il nuovo
individuo nato è lo stesso e non è lo
stesso. C'è la trasmissione di forza karmica
dall'uno all'altro e questo è un elemento di
continuità, ma c'è anche discontinuità,
di qui l'affermazione: 'È lo stesso e non è
lo stesso'.
Naturalmente, la cosa che colpisce è la continuità,
perché da un'ottica non di questo genere nessuno
si sogna di dire che è lo stesso anche al venti
per cento. Allora, se l'ipotesi del karma è vera,
noi ci troviamo davanti a una prospettiva vertiginosa,
perché si dilata enormemente il nostro concetto
di responsabilità, la nostra responsabilità
diventa cosmica. Se è vero che noi trasmettiamo
i nodi che ci affliggono, allora ci sarà un essere
che prenderà in carico questi nodi, questa riverberazione
tossica e dolorosa. Quindi, dobbiamo immaginare una
successione di individui, che sono lo stesso inividuo,
e non sono lo stesso inividuo, che si portano appresso
questi nodi, magari complicandoli ulteriormente. Inoltre,
ciascun individuo di questa serie, entra in contatto
con altre persone e perciò alla riverberazione
verticale, di vita in vita, si aggiunge, in qualche
misura, anche una riverberazione orizzontale, cioé
la mia avversione sarà causa di sofferenza per
me, ma anche per altre persone che incontro nella mia
vita. Insomma, indubbiamente, una responsabilità
molto vasta. D'altra parte, la fecondità karmica
funziona anche nella direzione opposta, positiva. E
dunque, se noi lavoriamo a sciogliere questi nodi, in
virtù di un cammino interiore, la riverberazione
attraverso serie di individui, da tossica, diventa sempre
più salutare. E questo sia a livello verticale
che orizzontale: una prospettiva grandiosa di interconnessione
e responsabilità comune. A me sembra che riflettere
su questa ipotesi di grandiosa responsabilità
possa essere un aiuto efficace per disincapsularci dalla
visione di fissità egoica, alienata, separata,
non interconnessa, nella quale è facile che noi
viviamo.
Levine presenta una concezione evolutivo provvidenziale
del karma, dice: "Il karma non è una punizione,
bensì un aspetto della natura misericordiosa
dell'universo che ci offre gli insegnamenti che in passato
abbiamo frainteso, per permetterci di apprendere dalle
esperienze alle quali, in precedenza, non abbiamo prestato
sufficiente attenzione." Ossia, tutto quello che
non è risolto ritorna affinché noi, prima
o poi, lo risolviamo. Allora, non so se possiamo leggere
in questa chiave, che è evidente in altri sistemi
soteriologici, la dottrina del buddhismo antico. Quello
che mi sembra comunque rilevante è che questa
modalità, del prendere tutto quello che ci viene
come un invito a risolvere e a lavorare, è inevitabile
per chi pratica. Ossia, prendere tutto quello che ci
capita, tutto il nostro karma, come sfida, stimolo,
insegnamento, tutto quello che ci arriva come invito
a crescere. Tutto, bene e male, come fermento di bene.
Mi viene in mente San Paolo quando dice: "Tutto
concorre al bene per coloro che amano Dio".
Se abbiamo una pratica interiore, meditazione, preghiera,
tutto quello che ci succede diventa un richiamo all'esercizio
della consapevolezza, della comprensione, della compassione.
Allora, quando questo comincia a succedere, comincia
a finire quella scissione, quella separazione dolorosa
tra il piacevole, a cui siamo avidamente attaccati,
di tutti i tipi, mentale, sensoriale, e la fuga senza
fine dallo spiacevole, perché tutto quello che
accade è fermento di pratica. E, piano piano,
il baricentro dei valori si sposta, dai contenuti, dagli
oggetti, dalle esperienze, dall'esterno, all'interno.
Cioè il valore per eccellenza diventa questa
capacità di aprirsi che significa consapevolezza,
comprensione, compassione.
Tutto quello che accade è combustibile per questo
fuoco, e allora siamo sempre meno interessati al combustibile
e siamo sempre più interessati al fuoco, che
è alimentabile da tutto ciò che ci succede.
Se la compassione, la comprensione, ci unifica dentro,
ci unifica altrettanto con l'esterno, inducendoci a
vedere sempre meno la differenza fra la sofferenza nostra
e la sofferenza altrui. Questo progressivo diminuire
della differenza tra la sofferenza propria e quella
altrui significa il fiorire della compassione.
Oggi, in Occidente, chi segue un cammino spirituale,
che provenga da vicino o che sia venuto da lontano,
sempre meno tende ad appoggiarsi a credenze, a dottrine,
concetti, per cui, nel caso per esempio della morte,
si ricorre non tanto a dottrine quanto alla categoria
del mistero. A me sembra che ci siano due modi di metterci
davanti al mistero: uno è un onesto non so; ma,
se consideriamo quello che mi sembra più specifico
dell'approccio spirituale allora, oltre al non so, c'è
qualche altra cosa, e questa altra cosa io lo chiamerei
il fattore F, cioé fede-fiducia, distinto da
fede-credenza. Perché questa fiducia? Se io perseguo
un cammino di purificazione mentale buddhista o non-buddhista,
a un certo momento comincio a vedere, con sorpresa e
con interesse, che la mia capacità di fiducia
diventa più calda e più spaziosa. Questo
ha a che vedere con la scoperta e l'applicazione feconda
dell'attenzione, della consapevolezza, che non è
un contenuto mentale, ma qualcosa che è capace
di vedere i contenuti mentali come uno specchio terso.
In pratica, col tempo e col lavoro interiore, noi sempre
di più ci troviamo davanti "qualcosa",
la consapevolezza, che da un lato ora c'è ora
non c'è come qualsiasi altro contenuto mentale,
ma, dall'altro, in radicale diversità dagli altri
contenuti mentali, la consapevolezza si rivela come
qualcosa di assolutamente uguale, assolutamente terso,
assolutamente aperto. Sono proprio queste caratteristiche
a darci un senso di sconfinatezza che genera fiducia.
Una pratica di consapevolezza, prima o poi, deve far
sorgere nella persona la fiducia nella consapevolezza.
Ma la fiducia nella consapevoezza non è la fiducia
in questo, o in quello, è una fiducia più
vasta, come più vasta è la consapevolezza.
Non i contenuti della consapevolezza, il contenente.
Naturalmente, nel momento in cui riprendono il sopravvento
i nostri modi, noi avremo soltanto paura della morte,
laddove, nell'attimo in cui è presente la consapevolezza,
con questo suo sentore di sconfinatezza, noi avremo
meno paura della morte, anzi potremo perfino avere fiducia
nella morte. Perché no? Che ne sappiamo? E ci
accorgeremo che l'idea di amicizia per la morte è
una vera possibilità. Vorrei finire con le parole
di Marie de Hennezel, che si occupa di assistenza ai
malati terminali: "Questa impotenza, ossia la situazione
di una casa per l'assistenza ai malati terminali, accettata
ancora una volta, è la nostra forza, lo sappiamo.
Cioé continure a fare il possibile in un contesto
di impotenza generale ha paradossalmente un impatto
dirompente". E le persone che vanno in questa casa
lo sentono e sono enormemente aiutate nel trapasso.
E questo impatto dirompente si chiama fiducia, si chiama
amore. La stessa de Hennezel racconta di una persona
che le dice: "Ho paura di morire, non so come si
muore, ti prego aiutami". "Sul momento rimango
interdetta, neanch'io so come si muore, però
rispondo: "Credo che sia più facile di quello
che ci si immagina. Sembra in realtà che sia
molto semplice, forse c'è qualcosa in noi che
sa".
Corrado Pensa è insegnante di meditazione
vipassana, presso l'Associazione per la meditazione
di consapevolezza (A.ME.CO) di Roma e presso l'Insight
Meditation Society di Barre negli Stati Uniti, e ordinario
di Religioni e Filosofie dell'India e dell'Estremo Oriente
presso l'Università 'La Sapienza' di Roma.
Il libro di Stephen Levine "Chi muore?", edizione
Sensibili alle foglie, può essere richiesto a
La Rete di Indra che ne ha curato l'edizione italiana.