Il
perdono
di Frank Ostaseski
Oggi,
durante i colloqui ho visto persone accostarsi al
ritiro con grande sincerità, con il cuore così
gentile. Ho anche notato la tendenza a criticarsi
proprio quando avremmo più bisogno di gentilezza:
ci flagelliamo con la critica. Il poeta Antonio Machado
ha scritto questi versi: "La notte scorsa mentre
dormivo sognai che api dorate stavano facendo bianchi
alveari e miele dolce dei miei vecchi fallimenti".
Una cosa che ho notato lavorando con le persone vicine
alla morte è il modo in cui guariscono; anche
quando non c'è più speranza di curarli
in senso fisico, una forma di guarigione è
comunque possibile.
E un percorso che spesso si intraprende è quello
del perdono. Nella pratica buddhista non si parla
molto di perdono, nella tradizione monastica theravada
vi è una forma di confessione rituale che è
seguita da un perdono e nella pratica Zen abbiamo
quello che si chiama confessare le proprie illusioni.
Ma è qualcosa di completamente diverso dall'idea
di peccato. Credo però che, anche se non se
ne parla molto, il perdono nella pratica buddhista
abbia un valore straordinario. È una pratica
che ci guida verso la verità assoluta. Si può
parlare di perdono come di uno sciogliersi della corazza
attorno al cuore, di un modo per sciogliere ciò
che ci separa dall'altro che è poi anche ciò
che ci separa da noi stessi.
Tutti conosciamo, credo, il piacere che si prova nel
mettere pace nel nostro dolore. Il perdono è
un modo per non perpetuare il dolore. La maggior parte
di noi lo sa e allora perché non lo facciamo?
Perché ci aggrappiamo così strettamente
al nostro dolore? Forse perché pensiamo che
se non sentendo più il dolore potremmo dimenticare
il danno che abbiamo subito e che dunque potrebbe
ripetersi. Se siamo stati noi invece a causare del
male ad altri ci teniamo il nostro dolore, così
da non correre il rischio di ripetere ciò che
abbiamo fatto. A volte ci teniamo stretti al dolore
per punirci ed è molto utile distinguere fra
le lezioni che abbiamo imparato da una certa esperienza
e, invece, il contrarci, il trattenere, la tensione
che creiamo intorno all'esperienza. Anche perché
forse confondiamo il perdono con il dimenticare: perdonare
non ha nulla a che vedere con il dimenticare. Confondiamo
il perdono con il condonare le azioni sbagliate, ma
il perdonare non ha nulla a che vedere con il condonare
le azioni dannose e nemmeno con il perdonarle. Secondo
me, il perdonare riguarda il perdonare colui che ha
commesso l'azione, non l'azione. Credo che il perdono
sia un po' come se dopo aver tenuto a lungo in mano
un tizzone ardente poi decidessimo di posarlo: questo
è l'atto del perdonare.
Ci sono tante proibizioni intorno a questa azione:
vogliamo che l'altro paghi per quello che ha fatto,
vogliamo giustizia prima di perdonare, vogliamo che
l'altro soffra come noi, prima di perdonare. Ma il
perdono non ha a che vedere con la giustizia e neanche
con la riconciliazione, ma solo con il posare, con
il mettere giù il tizzone ardente.
Una delle prime pazienti di cui ci prendemmo cura
al centro Zen si chiamava Stella. Stella aveva un
fratello, Rusty, che era un vero cow-boy, uno che
faceva i rodei. Non l'aveva più visto da venti
anni. Mentre era da noi, vicina alla morte, ebbe modo
di contattare il fratello e lui arrivo al nostro centro.
Rusty si presentò alla porta - lo ricordo ancora
- con il cappellone da cow-boy, gli stivaloni e una
grande cintura argentata e subito esclamò:
"In che razza di posto avete messo mia sorella?"
Aveva visto i monaci con la testa rasata e la veste
nera. Salì al piano di sopra, ma non si decideva
a entrare nella stanza della sorella, continuava a
camminare su e giù per il corridoio, ma alla
fine entrò e dopo i primi momenti di imbarazzo
sembrò che entrambi riprendessero a parlare
da dove si erano lasciati l'ultima volta. Lei gli
faceva vedere delle figurine di cristallo di cui faceva
collezione e lui si vantava dei trofei che aveva vinto
nei rodei. Rimase con noi per alcune settimane e ogni
mattina scendeva a colazione e si sedeva al tavolo
in mezzo a tutti i monaci con la veste nera e il capo
rasato. Si sedeva lì, con il suo cappellone
da cow-boy, e continuava a ripetere: "Ma che
razza di cibo è questo tofu?".
Il giorno che decise di andarsene noi eravamo in giardino
a fumare e scherzare, lui si avvicinò e prima
di salutare disse: "Vorrei dirglielo, ma non
ci riesco, non posso. Non ci riesco, proprio non ci
riesco". Mi misi a sedere e gli dissi: "Se
vuoi dire qualcosa a tua sorella non hai molto tempo".
Allora lui iniziò a raccontarmi la sua vita,
di quando ancora molto piccoli vennero separati alla
morte dei loro genitori e più tardi messi in
un orfanotrofio. Avevano avuto una vita veramente
difficile. Mi disse come era stato cattivo e crudele
con la sorella, di come le aveva fatto violenza e
subito dopo di come era fuggito. Ci vollero delle
ore prima che tutta la storia venisse fuori mentre
da parte mia mi limitavo ad ascoltare. Alla fine gli
dissi: "Andiamo su da tua sorella". Mi ricordo
che entrò nella stanza, girò intorno
al letto e si mise a sedere vicino a lei.
Stella era già molto debole. Lui le disse:
"Stella, sai, c'è qualcosa che vorrei
dirti, ma non sono molto bravo con le parole".
In quel momento era incredibilmente vulnerabile: lui,
il duro cow-boy. E lei fece la cosa più straordinaria,
alzò una mano e disse: "Qui ho qualcuno
che mi dà da mangiare, qualcuno che mi fa il
bagno: sono circondata da gentilezza e amore; nessun
rimprovero".
È stato un momento di perdono straordinario,
in quel momento veniva perdonata una intera vita.
Non era solo un momento catartico, ma trasformativo.
Stella in qualche modo sapeva che per essere liberi
bisognava perdonare. Il perdono è molto più
di un sentimento, così come la compassione
è molto più di un' idea; richiede coraggio
perché iniziando il processo del perdonare
la prima cosa che emerge è quanto è
chiuso il nostro cuore, quanto vogliamo tenerci stretti
al dolore solo perché ci è familiare.
Perché non perdoniamo?
Il mio maestro insegnava una pratica con la quale
coltivare le qualità della gentilezza amorevole,
della benevolenza nel corpo e nella mente riflettendo
sulla qualità del perdono. Rievochiamo l'immagine
di qualcuno a cui abbiamo fatto del male, cercando
di sentire la sensazione della persona, magari rievocandone
l'immagine mentale, e linvitiamola a entrare nel nostro
cuore. Poi parlandole, chiamandola anche per nome,
chiediamo perdono per qualunque cosa che le abbiamo
fatto con azioni, parole o pensieri. Chiediamo perdono.
Dopo un po' lasciamo andare gentilmente questa immagine,
toccati dalla possibilità del perdono e torniamo
al nostro cuore per ritrovare le nostre energie. Poi
evochiamo l'immagine di qualcuno che ci ha causato
del dolore e di nuovo ripetiamo lo stesso processo,
ma questa volta offrendo il perdono. Poi lasciamo
andare anche questa persona e torniamo al nostro cuore
portandovi questa volta noi stessi, per tutte le cose
che ci siamo fatti di male, per tutte le volte che
siamo stati freddi con noi stessi e non siamo stati
capaci di ascoltare: ci chiediamo perdono. Spesso
è proprio questo il punto più difficile.
In senso profondo non vi è in realtà
un altro da perdonare: il perdono è a nostro
stesso beneficio, è il modo con cui possiamo
alleviare il nostro dolore. Ma trovo che questo processo
ci aiuta a generare compassione.
Ogni volta che parlo di perdono in un gruppo mi sembra
di cogliere due cose: una certa tenerezza, ma anche
qualche resistenza.
Un'ultima storia. Qualche anno fa insegnavo in Germania
dove avevo fatto un seminario sul lutto e sul perdono
ed eravamo giunti al termine, stavamo quasi per salutarci
quando proprio all'ultimo momento una donna piuttosto
anziana alzò la mano. Ero un po' esitante a
farla parlare perché il tempo era agli sgoccioli,
ma per quanto mi volessi attenere all'orario mi rendevo
conto che in quel momento c'era qualcosaltro che stava
accadendo. La donna iniziò a parlare e disse:
"Hai parlato di perdono, ma il mio cuore è
come una pietra, non c'è spazio nel mio cuore
per il perdono, non venirmi a parlare di perdono.
Mio padre è morto nei campi di concentramento".
Che cosa si poteva rispondere?
Per un po' restammo tutti in silenzio. Poi un'altra
donna alzo la mano, la grande sofferenza legata ai
campi di concentramento emergeva e le persone ne volevano
parlare. Malgrado il mio timore e la mia esitazione
la feci parlare.
Lei disse: "Anche il mio cuore è come
pietra, non c'è posto in me per il perdono:
mio padre era un guardiano nei campi di concentramento".
Ci fu un lungo silenzio, nessuno sapeva cosa fare
o dire, poi le due donne si avvicinarono l'una all'altra
e si abbracciarono. Avevano capito che la sofferenza
nell'altra era anche la propria sofferenza.
Perciò stasera vorrei che ci soffermassimo
a parlare del perdono, forse per dire le resistenze
che abbiamo oppure per dire quanto ci piacerebbe essere
capaci di perdonare. Qualunque cosa desideriate dire
rispetto a questo tema. Abbiamo venti minuti. Cerchiamo
di essere rispettosi l'uno dell'altro, di essere brevi
e di dire solo ciò che è essenziale;
forse non avremo modo di raccontare l'intera la storia,
ma confido nella saggezza di questo circolo. Prima
però restate per un po' con il vostro corpo.
Riflettiamo un momento sul perdono: forse portando
alla mente delle offese subite o provocate, oppure
situazioni in cui il perdono potrebbe essere di aiuto.
Il perdono che arriva troppo presto è forzato,
non fa altro che serrare il cuore.
Ripeto, il Buddha disse che anche se cercate per tutti
i mondi, per tutti gli oceani, non troverete un'altra
persona più meritevole d'amore che voi stessi.
Il perdono che arriva troppo rapidamente può
semplicemente essere una copertura, dobbiamo essere
capaci di sentire il dolore nel cuore e toccarlo con
gentilezza. Sapere quanto è doloroso tenere
un altro fuori del nostro cuore, anche se è
il nostro peggior nemico. Capire quanto fa male tenere
noi stessi fuori dal nostro cuore. È soltanto
sentendo questo dolore direttamente che nasce la compassione.
Anche se è estremamente difficile, non bisogna
sottovalutare la nostra capacità di dare e
ricevere perdono.
Ero solito comprare la maggior parte del mio abbigliamento
nei negozi di usato, si tratta di vestiti che hanno
spesso delle macchioline o dei piccoli strappi e sull'etichetta
del prezzo c'è scritto: "Così come
è". Credo che dovremmo procurarci un po'
di queste targhette per noi: ti prendo così
come sei, con tutte le tue macchie e imperfezioni.
Restiamo seduti per un attimo.
Trascrizione del discorso tenuto a Pomaia durante
il ritiro del giugno 2000.
Frank Ostaseski dirige lo Zen Hospice Project di San
Francisco, da lui fondato nel 1987. Si tratta di un
progetto che si articola intorno a tre programmi principali:
una struttura indipendente di 28 posti letto in grado
di accogliere adulti in fase terminale, una seconda
struttura all'interno di un ospedale pubblico e infine
un centro per la formazione dei volontari dove viene
prestata particolare attenzione alla crescita individuale
di tutte le persone coinvolte.