Globalizzazione
e disumanizzazione del mondo della vita
di Francesco Campione
Questo intervento è stato fatto il 5 maggio
del 2000, presso il municipio di Mestre in occasione
della presentazione pubblica dell'associazione Adelma
(assistenza dolenti evento luttuoso mutuo aiuto).
Sono intervenuti, oltre a Francesco Campione, il dott.
Davide Banon, psichiatra, la dott.ssa Livia Crozzoli
Aite, psicanalista junghiana, e la senatrice Bianca
Maria Fiorillo, con il patrocinio del comune di Venezia
e dell'Ordine Provinciale dei medici chirurghi e odontoiatri
di Venezia.
Il
dilemma della nostra contemporaneità è
stato espresso nel 1996 in riferimento alle esigenze
della globalizzazione dei mercati mondiali da Dahrendrof
con la metafora della "quadratura del cerchio".
"Per rimanere concorrenziali nell'allargarsi
dei mercati mondiali gli stati dell'Ocse devono compiere
passi che producono danni irreparabili alla coesione
sociale dei cittadini... Perciò, nel prossimo
decennio, il compito più urgente del primo
mondo sarà quello di far quadrare il cerchio,
ossia di rendere tra loro compatibili benessere, tenuta
sociale e libertà politica"(1).
Uno di questi "passi che producono danni irreparabili"
è la politica di liberalizzazione delle pratiche
di "aiuto" e di assistenza che l'ottimismo
neoliberista tende a promuovere confidando nella certezza
che un giorno l'efficienza del mercato produrrà
la giustizia sociale.
Dice Habermas(2): "È probabile che privatizzando
ulteriormente il mercato del lavoro e privatizzando
la previdenza contro malattie, vecchiaia e disoccupazione
si creino (nella fascia dei redditi più bassi
e dei rapporti occupazionali incerti) sacche di povertà
intorno al confine del minimo esistenziale. Anche
se una maggioranza di "soddisfatti" o "quasi
soddisfatti" dovesse accettare l'idea di delegare
alla repressione di stato (come problema di ordine
pubblico e come problema assistenziale) il resto della
popolazione disperatamente "eccedente" e
politicamente tagliata fuori, questa forzata desolidarizzazione
resterebbe pur sempre una spina nel fianco della cultura
politica. Nessuna giustificazione funzionale può
rendere normativamente accettabili in una società
democratica costituita di cittadini differenze sociali
troppo divaricate".
Si tratta, a mio modesto avviso, di una questione
teoricamente irrisolvibile, una vera e propria "quadratura
del cerchio sul piano razionale", poiché:
ai neoliberisti tocca l'onere di provare che un'ingiustizia
sociale per un tempo imprecisato sia un prezzo equo
da pagare per ottenere la giustizia sociale attraverso
l'efficienza del mercato (dando ottimisticamente per
scontato che l'efficienza del mercato porti ad un
progresso illimitato e quindi alla fine per tutti,
cioè giusto); così come ai loro critici
socialdemocratici o neocomunisti spetta provare che
esista allo stato un'alternativa all'efficienza del
mercato per conseguire la giustizia sociale.
Mi pare allora che si possa proporre una diversa impostazione
a partire dalla considerazione che sia dando la priorità
all'efficienza del mercato sia dandola alla giustizia
sociale si può sacrificare una dimensione importantissima
dell'umano: la dimensione della responsabilità
verso chi soffre a prescindere dal fatto che "ragioni"
di questa sofferenza stiano nell'inefficienza del
mercato o nell'ingiustizia sociale.
Voglio dire che tanto il valore dell'efficienza del
mercato (qualunque obiettivo a lungo o medio termine
esso prometta) quanto il valore della giustizia sociale
(per quanto desiderabile essa sia) hanno troppe volte
mostrato di saper sacrificare con troppa leggerezza
il valore della "compassione" per chi soffre
hic et nunc. Forse perché condividono
una comune "adorazione" per la ragione calcolante
(i calcoli su cui si basa l'efficienza tecnica e quelli
su cui si basa la giustizia distributiva) o forse
perché la compassione si è mostrata
troppe volte poco "disinteressata".
L'impostazione che vorrei proporre si basa anche su
un'osservazione di comune accesso: ogni volta che
qualcuno vive una situazione di crisi si cercano vie
"tecniche" o sociali per aiutarlo a superare
la crisi finendo così per "scotomizzare"
il "chi" della crisi, la sua dimensione
soggettiva. Si aiutano i malati a superare la malattia,
quasi per niente a superare la crisi esistenziale
che la malattia ha determinato, si aiutano i vecchi
a superare i limiti della loro vecchiaia quasi per
niente a superare la crisi esistenziale che la vecchiaia
ha determinato, si aiutano le donne stuprate a trovare
e punire lo stupratore quasi per niente a superare
il trauma dello stupro, si aiutano le vittime di un
incidente a superare le ferite e gli eventuali handicap
quasi per niente a superare i traumi esistenziali
dell'incidente, fino all'assenza quasi totale e alla
solitudine nella quale sono lasciati coloro che hanno
subito la perdita di una persona cara.
Con la conseguenza che in un'epoca di ottimismo sulle
possibilità della tecnica c'è un sempre
più diffuso pessimismo sulla possibilità
che qualcuno ti aiuti allorché ti accada qualcosa
di tragico.
In sostanza, ecco l'impostazione nuova che vorrei
proporre sia nei discorsi del neoliberismo che in
quelli dei suoi critici socialdemocratici o di "terza
via" tende a scomparire la considerazione dell'esperienza
della compassione che ciascuno di noi è in
grado di sentire di fronte a chi soffre derivandone
la responsabilità incedibile di aiutarlo. Ecco
perché non ci si accorge che nelle situazioni
di crisi siamo tutti uguali, non nel senso che tutti
possiamo essere oggetto di tecniche più o meno
efficaci per superare la crisi o di interventi sociali
che non ci sfavoriscano rispetto ad altri, ma nel
senso che quando siamo in crisi siamo tutti uomini
che hanno bisogno di altri uomini in grado di rispondere
al loro appello di aiuto senza fare calcoli né
tecnici né di giustizia sociale.
E invece... si risponde agli appelli di aiuto solo
se ci sono soluzioni tecniche, altrimenti si tende
ad emarginare e ad abbandonare. Oppure, ad esempio
nella Sanità, si pensa di risolvere i problemi
dei malati facendo riforme che rendono formalmente
tutti uguali allorché invece si avrebbe bisogno
di essere nel momento del bisogno tutti privilegiati.
La proposta consiste in altri termini nell'anteporre
la dimensione etica (del faccia a faccia, della responsabilità
individuale per chi soffre ogni volta che egli ci
si presenti in persona chiedendo aiuto) alla dimensione
tecnica (giudicata in base alla sua efficienza ed
efficacia misurate secondo standard oggettivi e non
"giudicata" da chi riceve aiuto) e alla
dimensione della giustizia (cioè del calcolo
che soppesa le possibilità della realtà
in relazione ai bisogni dei singoli).
Ciò significherebbe che, nella constatazione
che ci sono persone in crisi, bisognose di aiuto,
ma che nessuno aiuta, venisse innanzitutto in primo
piano la responsabilità di aiutarle, cioè
di accogliere il loro appello di aiuto a prescindere
dal "sapere" come aiutarle (cioè
dalle tecniche per aiutarle) o se bisogna prima aiutare
altre persone che stanno peggio in base alle limitate
risorse di aiuto a disposizione (cioè a prescindere
dalla giustizia sociale).
Non che le tecniche di aiuto siano poco importanti
(ché una tecnica efficace di aiuto è
ciò che rende concreto un aiuto), ma non si
dovrebbe più, come si tende a fare oggi, subordinare
l'aiuto alle tecniche per attuarlo, finendo per abbandonare
necessariamente tutti coloro che chiedono un aiuto
per cui non esistono al momento tecniche efficaci.
Non che scegliere di aiutare prima chi ha più
bisogno non sia importante (se le risorse sono limitate
è giusto fare una scelta del genere) ma non
si dovrebbe più subordinare l'aiuto alla disponibilità
delle risorse, pena l'abbandono di tutti coloro che
chiedono aiuto per una crisi e vengono abbandonati
perché vivono in un'epoca in cui ci sono crisi
più gravi da risolvere e bisogna scegliere
a chi destinare le poche risorse a disposizione.
Quando l'aiuto tecnico efficace ed efficiente è
possibile, e solo allora, siamo autorizzati a tradurre
un appello di aiuto nei termini dell'intervento tecnico,
altrimenti è il personalissimo appello di ciascuno
che dobbiamo imparare ad ascoltare assumendoci la
responsabilità individualmente nei confronti
della particolare persona che soffre. Ma se le risorse
a disposizione sono limitate e se ci sono tante altre
persone che ci chiamano alla responsabilità
individuale di aiutarle possiamo essere costretti
a scegliere chi sia più giusto privilegiare
nell'aiuto. Col risultato sempre trascurato che, nel
momento in cui chi è meno bisognoso viene abbandonato
e gli viene preferito un altro, chi era meno bisognoso
diventa immediatamente il più bisognoso.
Senza la compassione invincibile per chi soffre che
ciascuno può sentire nel faccia a faccia con
chi fa appello a lui e solo a lui, non sarebbe possibile
superare la dimensione tecnica e quella della giustizia
sociale. Vuol dire che solo se ciascuno di noi è
in grado di rispondere individualmente all'appello
di aiuto di un altro si possono trovare le risorse
umane per aiutare tutti, altrimenti ognuno risponderà
in base al suo ruolo tecnico o al suo ruolo sociale
e potrà aiutare solo coloro per cui ha una
tecnica o per cui trova una risorsa, ma sempre a scapito
di qualcun altro.
Ed è proprio perché tendiamo a rispondere
agli altri non in "quanto noi stessi" ma
solo tramite le maschere dei nostri ruoli tecnici
e sociali che ci siamo ridotti al dilemma tra efficienza
tecnica e giustizia sociale senza scorgere più
nessun'altra alternativa.
La ragione antropologica di ciò penso risieda
nell'aver scelto la cultura occidentale di privilegiare
gli aspetti biologici dell'essere umano subordinandovi
sia quelli personali che quelli più prettamente
umani.
Cercherò di dimostrarlo proprio attraverso
l'esempio del modo in cui si giudicano e affrontano
le situazioni di crisi nella nostra epoca.
Se superare una crisi, come sembrano tutti d'accordo,
implica un lavoro del lutto, cioè un processo
psicologico complesso, oggi si tende a ridurre il
lavoro del lutto ad un lavoro "biologico",
mentre più in crisi è la modalità
psicoanalitica di concepire il lavoro del lutto e
sempre più di orizzonte è la modalità
umana di concepire il lavoro del lutto.
Si tende, infatti, ad identificarsi sempre di più
come esseri biologici (dicendo "io" si dice
che l'oggettiva funzionalità biologica è
al centro del proprio essere e che "Persona"
e "Umanità" sono effetti del modo
oggettivo di essere della biologia, essendo, ad esempio,
determinati dal patrimonio genetico).
Si tende sempre meno a identificarsi come esseri personali
(dicendo "io" si vuole dire che la soggettività
interiore è al centro del proprio essere e
che biologia e umanità sono effetti del modo
soggettivo di considerarli e prenderli).
Si tende meno ancora a identificarsi come esseri umani
(dicendo "io" si vuole dire che il presentarsi
all'altro è il centro del proprio essere e
che biologia e persona sono effetti del modo di rispondere
all'altro che "chiama all'essere" biologico
o personale, ad esempio che non saremmo nati biologicamente
se nessuno ci avesse messo al mondo e che non saremmo
persone se nessuno avesse mai fatto appello alla nostra
responsabilità esclusiva).
Ed è perciò che si tende a ridurre il
lavoro del lutto a un lavoro biologico: un lavoro
"cognitivo", un lavoro di elaborazione della
situazione esterna (le forze in campo nell'ambiente)
e della situazione interna (le risorse della mente)
che tenderebbe a determinare scelte razionali, cioè
"sostituzioni" o "riparazioni"
che ristabiliscano l'adattamento perduto con la crisi.
Un lavoro, come si vede, quasi tecnico, in cui il
valore dell'efficacia e dell'efficienza è importantissimo,
un lavoro razionale che calcola le risorse in modo
economico. Un lavoro coerente con l'idea liberistica
secondo cui sono gli "animal spirits"
a presiedere all'azione umana. Un lavoro coerente
anche con l'idea socialista dell'uguaglianza di fronte
a una ragione economica in grado di distribuire equamente
le risorse.
Sempre più emarginante nel nostro contesto
diventa come concepire il lavoro del lutto come un
lavoro della persona, cioè come un lavoro che
lungi dall'essere un lavoro della mente è un
lavoro delle dinamiche soggettive, un lavoro delle
narrazioni interne, anche metaforico e mitico, una
specie di autoregolazione dinamica interna più
inconscia che conscia, un lavoro che tende nella crisi
più che a riparare o a sostituire le parti
di sé perdute a farne degli oggetti interni
che vivono dentro arricchendo l'io.
Sembra infine ritirarsi all'orizzonte, l'orizzonte
dell'umano oggi sempre più misconosciuto e
indicibile, il lavoro del lutto come lavoro umano
, cioè come riattivazione del desiderio di
chiedere aiuto agli altri e di rispondere all'appello
di aiuto di altri, senza sapere in anticipo se si
potrà essere aiutati o si potrà aiutare,
ma solo per riavvicinarsi agli altri, solo per vincere
la solitudine, sintomo cardine dell'umanità
in crisi allorché si viva, come oggi, in una
società che abbandona coloro per cui non ha
soluzioni tecnico-razionali o economico-razionali.
Se le cose stanno in questo modo, che fare?
Che fare perché non restino senza aiuto tutti
coloro che sono in crisi e per i quali non esiste
una soluzione tecnica o economica a disposizione?
Che fare perché l'aiuto a chi è in crisi
sia personalizzato e umanizzato?
Se ci riferiamo al nostro paese bisogna dire che mancano
anche, come ho dimostrato nel mio libro(3), gli aiuti
anche per coloro che hanno una crisi tecnicamente
affrontabile. C'è quindi innanzitutto bisogno
di una modernizzazione dell'intervento nelle situazioni
di crisi, dalla malattia allo stupro o ai traumi e
alle violenze in genere, fino alla morte e al lutto.
Anche quando si potrebbe non essere abbandonati a
se stessi applicando tecniche collaudate di aiuto
all'essere biologico, personale e umano nel nostro
paese non c'è quasi niente.
Per questo abbiamo proposto un disegno di legge per
l'istituzione dello "psicologo delle situazioni
di crisi".
Ma c'è anche l'esigenza di far emergere l'espressione
del bisogno personale e umano oltre che biologico
di essere aiutati, allorché si debba fare un
lavoro del lutto che mette in crisi come esseri biologici,
come persone o come esseri umani , in assenza di soluzioni
tecniche, cioè quando si tratti di un lavoro
del lutto che non trova modalità di riadattamento,
che turba dentro o getta in una solitudine profonda.
Penso che associazioni che nascono dal basso, come
quella che nasce oggi qui, come l'associazione "Rivivere"
di cui mi onoro di essere il fondatore o come chissà
quante altre possibili iniziative presenti o future,
possano essere il nucleo di un movimento che non solo
spinga alla modernizzazione facendo approvare la legge
istitutiva del ruolo portatore di precise tecniche
di aiuto (lo psicologo delle situazioni di crisi),
ma contribuisca ad aprire un'alternativa che non imponga
quadrature del cerchio perché non chiede all'efficienza
tecnica e alla giustizia sociale solo ciò che
una diffusa disponibilità ad assumersi una
responsabilità in prima persona nel faccia
a faccia con chi è in crisi e ha bisogno di
aiuto può garantire, grazie al fatto che ostacola
l'inaridirsi di una caratteristica umana di sempre,
la "compassione insaziabile" e disinteressata
per chi soffre.
Note:
1) R. Dahrendorf, Quadrare il cerchio, Laterza, 1996.
2) J. Habermas, La costellazione postnazionale, Feltrinelli,
1999.
3) F. Campione, Rivivere, CLUEB 2000.
Francesco Campione insegna Psicologia medica all'Università
di Bologna. Si occupa di assistenza ai malati terminali
e ai pazienti in situazione di crisi, di separazione
e di lutto. Ha fondato e dirige la rivista di Tanatologia
"Zeta".