Un
cappotto contro il freddo
di Elisabetta Armellini
INTRODUZIONE
Quella che si legge di seguito è la storia
di una persona che trova il senso della sua sofferenza,
la nomina e impara a non farsene travolgere. Sono
stata per quasi vent'anni ciò che si definisce
'anoressica restrittiva', più o meno: coltivavo
con cura e costanza un'ossessione verso il cibo che
mi permetteva di tenere sotto controllo le mie paure
(di vivere, o chissà che). Rituali e misure
e disciplina mi hanno accompagnato fedelmente finché,
circa un anno fa, non ho incontrato una psicoterapeuta,
a cui ho a lungo cercato di spiegare che stavo proprio
benissimo e non capivo perché ero lì
a parlare con lei. Daniela Morando, la psicoterapeuta
di cui sopra, mi ha lasciato parlare, aprire, chiudere,
innervosire, distrarre - poi mi ha detto: "proviamo
in questo modo - stai attenta, veramente attenta a
cosa c'è intorno a te, e poi dentro di te".
Solo attenta, senza giudicare. Solo attenta, respirando.
Beh, poi è successo quello che si legge di
seguito...
PROLOGO
C'era una volta una persona piccolina che sentiva
molto freddo. Siccome tra l'altro detestava sentire
freddo, si era confezionata un bel cappotto spesso
e pesantissimo, un bel cappotto proprio su misura
contro il freddo e contro la paura del freddo. Quel
cappotto era così perfetto che la persona piccolina
lo indossava sempre, anche in casa, anche per andare
a dormire, anche in estate. La persona piccolina era
fermamente convinta che quel cappotto andasse bene
per tutte le occasioni, e quando arrivarono l'estate
e l'aria profumata e bollente continuò a tenerlo
addosso. Le persone cominciarono a chiederle, guardandola
stranamente, se non fosse l'ora di togliersi il cappotto,
ma non c'era niente da fare: la persona piccolina
spiegava che quel cappotto li' era quello che le ci
voleva e, diamine, che altri avrebbe potuto sapere
quello che le ci voleva meglio di lei?
La faccenda andò avanti per molto, molto tempo:
la persona piccolina cresceva, le stagioni cambiavano,
ma il cappotto, anziché disfarsi, rimaneva
spesso e pesante, anzi sempre più spesso e
pesante, perché le fibre si erano un po' incrostate.
La persona piccolina era ridicola e scomoda con quella
specie di armatura, ma ormai non ci faceva più
caso.
Ci sono mille e un motivo per costruire l'armatura,
e di solito è una costruzione di mille e un
pezzo, che richiede tempo e fatica. Il problema è
che quando hai finito di costruire (se mai si finisce),
può aver smesso di esistere almeno la metà
dei motivi per cui hai cominciato l'opera, e tu non
te ne accorgi perché sei DENTRO.
Dentro, ovviamente, è buio pesto, ma sei talmente
abituato, e abile per carità, a lavorare al
buio che nemmeno te ne accorgi, te ne stai li' tutto
bello soddisfatto a sudare e rimirare la tua titanica
impresa, magari dicendoti che, si', forse domani darai
un'occhiatina a quello che succede fuori.
Poi filtra uno spiraglio di luce (l'istinto di sopravvivenza,
o chissà). Ti viene in mente che stare fermi
con gli occhi chiusi non è l'unico modo per
ripararsi dal sole, e forse dal sole non sempre bisogna
ripararsi.
A quel punto uno deve fidarsi: della luce, di se stesso
o/e di chissà chi.
Si comincia a scardinare l'armatura tassellino per
tassellino, e se si ha veramente fortuna becchi uno
dei tassellini che sosteneva il tutto, e il più
è fatto, crollo totale, libertà totale.
Non sto nemmeno a dire come ci si sente dopo. Io mi
sento stordita e infantilmente felice, esattamente
come da bambina davanti all'incantesimo dell'acqua
che gocciola dal rubinetto e delle formiche in fila.
Mi sento forte, di una forza dolce e pulita di cui
vado fiera. Anche prima ero forte, ma di una forza
dura e amara, la forza del NO, adesso è la
forza del SI'
Mi chiamo Lie, ho 36 anni. Mangiare poco, poco è
l'unico modo che credo (credevo) di conoscere per
mantenere ordine nel mondo. Mantenere ordine nel mondo
è l'unica necessità che credo (credevo)
di avere.
Poi ho scoperto, con il cuore e lo stomaco e la testa,
che IL CONTROLLO non è ORDINE, non è
ARMONIA, non è EQUILIBRIO. Ho scoperto che
stare fermi non serve a impedire che la vita si muova,
e la cosa migliore da fare, per un sacco di ragioni,
è quella di muoversi con la vita: questo genera
ordine, armonia ed equilibrio, un ordine, un'armonia
e un equilibrio dinamici.
Sembra semplice, lo è. Adesso cerco di raccontare
cosa è successo.
Mi hanno fatto notare che stavo altrove, cioè
in nessun posto. Se uno non sta, completamente, là
dove si trova e nel momento in cui ci si trova, non
sta in nessun posto, in realtà NON ESISTE.
La mia attenzione era costantemente rivolta alla mia
personale immagine del mondo, non al mondo: come se
guardassi perennemente un quadro del paesaggio, anziché
il paesaggio. Niente di male, se non fosse che si
rischiano la miopia e altri generi di inconvenienti,
tipo perdersi il paesaggio quando sembra di smalto
perché' c'è il sole ed è settembre.
Allora mi hanno insegnato a guardare. Per guardare
bisogna respirare, perché respirando in un
certo modo si torna al centro di sè, cioè
all'adesso. Quando si è nel bel mezzo dell'adesso,
è più facile guardarlo, e scoprire tutta
una riga di cose più o meno meravigliose. È
come se la mia percezione sensoriale si fosse affinata.
Si è affinata nutrendola: si può essere
sottili da sazi, non è l'astinenza che purifica
dalle scorie, non c'entra proprio niente la purezza
con l'assenza, con la mancanza, la purezza non è
una cosa che si costruisce, ma uno stato d'animo,
come la libertà. Libertà non è
liberarsi dalle necessità del corpo, anzi:
libertà è accettarle, libertà
è accettare. Accettando mi sento leggera, anche
se sono più pesante. Anche l'equilibrio è
uno stato d'animo, è dinamico e non si può
creare in laboratorio, sottraendo e aggiungendo secondo
regole prestabilite. L'equilibrio si autogenera accettando
(ad esempio, accetto di aver bisogno di mangiare di
tutto un po', e il mio peso, dopo il fisiologico aumento,
rimane COSTANTE. Miracolo? No, natura.)
SISTEMATICO DISORDINE
Il metodo per mettere in pratica il sistematico disordine
si è articolato in tre fasi:
1) Pilotare piccole variazioni e osservare cosa succede.
Esempio: mangiare un po' di pastasciutta e osservare
cosa succede, smettere di spazzolarsi sei yogourt
prima di andare a dormire e osservare cosa succede
Di solito succede di scoprire che NON È SUCCESSO
NIENTE, che non sei improvvisamente fulminata dalla
sfiga o punita dalla sorte. Succede di scoprire che
la pastasciutta continua ad essere una buona cosa
e che lo yogourth puoi mangiarlo a metà pomeriggio
o non mangiarlo. Succede di scoprire che PUOI FARLO
(primo vago sentore di LIBERTÀ)
2) Lasciare che le variazioni al rito avvengano e
ossrvare cosa succede esempio: andare fuori a cena
tre volte di seguito e osservare cosa succede
Di solito succede di scoprire che NON È SUCCESSO
NIENTE, se non che hai risparmiato tutta l'energia
che di solito dovevi usare per trovare scuse o spiegazioni
di quell'insalata scondita che avevi ordinato (il
profumo di LIBERTÀ si fa insistente. E inebriante)
3) Non accorgersi nemmeno che ci sono variazioni perché
si è capito che la vita è perenne variazione,
se glielo permetti e anche se non glielo permetti.
Tutto sta ad osservare cosa succede, e cosa succede,
in un modo o nell'altro, va sempre magicamente bene.
A questo punto il sistematico disordine scompare.
Non scompagino più ad arte, divertendomi e
un po' temendo, i miei pasti, ma tutto diventa (ritorna)
spontaneo. Mangio, e posso non contare le calorie
e le percentuali di grasso, nemmeno in un remoto angolino
del cervello (credo). Prendo qualche chilo, otto per
la precisione, in un paio di mesi o tre, e poi basta.
Non mi gonfio come un palloncino perché ho
mangiato il panettone. "Certo, perché
dovrei?" mi chiedo sollevando un sopracciglio
con aria sorpresa - ma so ancora che lo temevo, ricordo
ancora di quanto fossi fermamente convinta che ingoiando
un panino mi sarei trasformata in una mongolfiera.
Il problema non era essere una mongolfiera, ovviamente,
ma il fatto che essere grassi (?) significava aver
perso la battaglia, cioè il controllo. Se tutto
il tuo universo sta in piedi solo grazie al controllo...
Perché è cosi' facile vivere con il
cibo adesso? Forse perché non è più
animato, è inerte. Per me il cibo è
stato a lungo (sempre?) buono o cattivo, sano o non
sano, giusto o sbagliato. Riuscire a controllare il
cibo, razionarlo escludendo quello che 'fa male',
che 'è grasso', che 'è troppo dolce',
e via discorrendo, era un sistema validissimo per
ritenermi, o almeno dichiararmi, brillante e realizzata.
Il cibo era vivo, il cibo era un giudice.
Adesso è come se lo spirito l'avesse abbandonato,
è tornato ad essere un oggetto la cui bontà
o cattiveria non è trascendente, ma concreta
(il gusto, il sapore). Togliere o mettere cibo dal
mio piatto non è più un gesto di indipendenza,
né una punizione, né un premio, né
un rito, è una parte del mio vivere adesso,
qui, cosi' come sono.
Ho anche avuto modo di sperimentare il valore taumaturgico
concreto del mangiare, dopo che sono stata male, e
ogni fibra del mio corpo gridava a pieni polmoni di
mettere cibo nello stomaco per stare meglio. Il cibo
è prima di tutto questo, no? ENERGIA PULITA,
una specie di benzina. Se vuoi andare avanti, veloce
e senza intoppi, devi usarla. Quando non la usavo,
o la centellinavo, stavo ferma, il che probabilmente
era proprio quello che volevo. "Se sto qui, ferma
buona e zitta, la morte non mi verrà a cercare,
non mi potrà trovare" - ma neanche la
vita, se è per questo.
IL MIRACOLO DELLA PRESENZA MENTALE
Osservare è lasciar accadere senza cercare
di anticipare con la mente cosa accadrà e come
reagire. Osservare è prendere le misure/le
distanze, perciò vedere meglio tutto il contesto
e AUTOMATICAMENTE avere il senso della relatività
delle cose e comprendere l'hic et nunc. Stando nel
presente, si smette di aver paura, perché ci
si accorge di essere attrezzati per vivere ciò
che si sta vivendo. La sensazione/convinzione di non
essere adeguati alla vita e alla sua incontenibile
e strabiliante varietà è spesso/sempre
alla base del: "Sono qui, devo restituire questo
toner per la stampante che non va bene e posso farlo
anche se ho mangiato i tortellini, anche se arrossisco,
anche se questo signore mi tratterà sgarbatamente
perché gli sto dando una seccatura".
ESEMPIO 1
Vado a Ferrara per seguire un ufficio stampa. È
da molto che non mi stacco da mia figlia e dalla routine,
e all'inizio, sul treno, sto malissimo senza la mia
bambina - un male fisico prepotente, con gli occhi
che si riempiono loro malgrado di lacrime. Ma adesso
ho imparato a ESSERE PRESENTE A ME STESSA, e so che
a questo riguardo posso fare due cose: distrarmi con
giornali e programmi di lavoro o sentire il male cosi'
com'è e finché non mi ci abituo. Le
faccio tutte e due, e scopro che il dolore sordo e
sottile della separazione convive tranquillamente
con la gioia di fare qualcosa che piace. Continua
a mancarmi la mia piccoletta e sono terribilmente
contenta e coinvolta in questo lavoro. Scopro soprattutto
che sono attrezzata a vivere, sono adeguata, posso
reagire istantaneamente alle situazioni senza farmi
sopraffare.
ESEMPIO 2
Vengo ricoverata d'urgenza per un'emoraggia dopo un
aborto spontaneo. Aspetto di aver perso due barili
di sangue prima di chiamare l'ambulanza, perché
spero che si fermi la perdita e anche perché
ho paura di quello che succederà. Poi mi ricordo
che SONO PRESENTE A ME STESSA, SONO IL PRESENTE DI
ME STESSA, e chiamo il 118 e in due minuti organizzo
la vita di mio marito e di mia figlia, e mi affido
fiduciosa ed ilare a infermieri e medici. Posso farlo,
sono adeguata a vivere, qualsiasi cosa significhi
e comporti davvero vivere. Nella vita succedono cose
che non vorremmo che succedessero, o che non ci aspettavamo
che succedessero, ma SIAMO IN GRADO DI AFFRONTARLE,
se le guardiamo per quello che sono.
IL TESTIMONE ESTERIORE
47,48,49. Potrei anche sfondare il tetto dei 50 (!).
Non sono più quei numeri che mi rappresentano.
Per tanto tempo mettermi sulla bilancia e vedere la
lancetta attestarsi intorno ai 40 è stato come
un pat pat sulla spalla. Non era importante che gli
altri sapessero quanto poco pesavo, anzi da un certo
momento in poi il reale numero di chili veniva prudentemente
celato per non scatenare sguardi preoccupati. Ma quel
40 era la traduzione numerica di un raggiunto controllo,
significava essere padrona di me - e padrona significava
schiava, e non ero io che comandavo, ma questa convinzione
consolidata. Ma questo è il senno del poi...
Il mio corpo è sempre stato bravissimo. Ha
sopportato che io ne facessi uno strumento, per sedurre,
per confortarmi, per sparire, e non mi ha mai rinfacciato
le privazioni e l'assurda disciplina che gli ho imposto,
sorda ai suoi reali bisogni. Non che non me ne prendessi
cura, in un certo senso.
Ho passato mattinate nella vasca da bagno tra sali
e schiumette fragranti, ho massaggiato per ore con
creme (magari snellenti, già che c'ero) ogni
centimetro quadrato, ho camminato per chilometri vicino
al mare per garantirmi ossigeno e tonicità.
Ma, appunto, lo facevo seguendo un preciso, rigoroso
programma da rivista femminile, e intanto asciugavo
le forme ingoiando finocchi e acqua, considerando
olio e pane alla stregua di mostri nefandi, eccetera
eccetera. Le mestruazioni sparivano? Beh, una bella
comodità, e poi al limite c'era la pillola
a garantire il ricorso agli assorbenti con meravigliosa
regolarità. Il mio corpo, poverello, è
stato cosi' discreto da non impormi altri segnali
del suo disagio: niente pelle arida, niente capelli
radi, niente astenia, niente debolezza. Il mio corpo,
poverello, si è rassegnato a funzionare piuttosto
bene con la benzina razionata, e continuava pure a
piacere a qualcuno, il che era per me un'ulteriore
conferma di essere nel giusto. Certo, le scapole sporgevano
un pochino, il seno si è dato latitante, sul
decollete si potevano contare le costole e a stare
troppo a lungo seduta sul duro potevo sentire le ossa
che cominciavano a pungere le pelle, ma che soddisfazione
cingersi la vita con le mani e avvertirla cosi' esile...
(I primi riconoscimenti della piacevolezza del mio
aspetto hanno sventuratamente coinciso con il momento
in cui ho cominciato a dimagrire, e ho associato indelebilmente
le due cose, portando il sillogismo alle estreme conseguenze:
più sono magra, più piaccio. È
chiaro che non si trattava (tratta) solo di vanità
- beh, un po' sì, immagino. Comunque essere
considerata carina, o addirittura seducente, in qualche
modo significa essere accettata, o sentirsi accettata,
il che è una delle tante cose di cui avevo,
ho, abbiamo tutti bisogno, NO? (Per la serie "il
serpente che si mangia la coda").
E poi? Respirando, la voce del corpo mi è arrivata
più forte, più chiara, cosi' pacata
e suadente. "Ehi -mi ha detto- non è cosi'
che si trattano gli amici. Non è di questo
che ho bisogno, non è questo che io sono".
Ho cominciato a chiedermi chi è il mio corpo,
ma sul serio, e ho scoperto che il mio corpo sono
io, proprio io, l'io di adesso, una parte buona e
sana ed efficiente di me.
Non devo più accanirmi contro il corpo per
millantarmi alla faccia del mondo strepitosa domatrice
del tempo e dello spazio. Domare tempo e spazio attraverso
muscoli asciutti e pancia piatta mette insieme due
cose stupide: l'illusione del controllo e un concreto
mettere in pericolo la salute. Adesso che il mio sempre
è l'ora, ascolto con attenzione le richieste
dello stomaco, della pancia, delle gambe e tutto il
resto, non le pospongo all'obbligo ossessivo di una
astratta e severissima disciplina. Esserci significa
esserci interamente, corpo compreso. Il corpo, commosso,
ringrazia: testimone esteriore di una prolungata follia,
ricambia, sente meglio, più precisamente e
nettamente, le cose che gli capitano: il caldo è
più caldo, il sole più sole, il sapore
più sapore.
Respirare è rientrare in contatto con il tutto
di sè, i polmoni, il diaframma, il modo della
pelle di avvertire la maglia di cotone. Si guarda
poi con occhi freschi, liberi e presenti. Mi sento
nuova, anzi nuovamente me. NON SONO CAMBIATA, sono
tornata dentro me stessa, dopo aver vissuto per un
po' a debita distanza, forse nell'assurdo tentativo
di preservarmi cosi' dall'usura, di preservare tutto
il mio mondo dall'usura - oltre che per gli altri
mille e uno motivi di cui sopra. Il corpo è
il mio simbolo, un testimone esteriore che chiacchiera
graziosamente con quello interiore, risvegliato da
una specie di catalessi grazie al semplice magnifico
respiro.
Per mia fortuna, la 'presunzione di conoscenza' non
è un macigno che schiaccia e distrugge la spontaneità,
l'ingenuità. È piuttosto come polvere,
e sotto la patina ormai densa di questa polvere, spazzata
via da un soffio/respiro, ho ritrovato intatte tutte
e due, spontaneità e ingenuità. Credevo
di non poter più tornare indietro ("come
potrò mai scordare che un etto di fragole equivale
a 33 calorie? come potrò mai scordare che si
deve morire?"), ma nel momento in cui vengono
a mancare le coordinate spazio e tempo, non c'è
più un indietro, né un avanti. Ora capisco
l'eterno presente, e a sorpresa capisco che non corrisponde
all'immobilità, ma ne è l'esatto contrario.
TROPPE MADRI, NESSUNA MAMMA
Tra gli effetti collaterali/cause scatenanti di un
pensiero ossessivo tipo il mio c'è (stata?)
questa cosa del rapporto con la madre. Io ho avuto
almeno tre madri. Una è quella che mi ha fatto,
una donna affaticata e indurita da una vita difficile,
capace di trasmettere affetto solo attraverso l'accudimento.
Convinta che l'esistenza sia soprattutto sacrificio
e dolore, convinta di non sbagliare mai, convinta.
L'altra è quella che avrei voluto. Da bambina
era una mamma che giocava molto, da adolescente una
mamma che si vestiva bene, fumava, guidava e parlava
di ragazzi, in generale una mamma in grado di ascoltare,
consolare, incoraggiare eccetera. L'ultima è
quella che sono stata per me. Siccome quella che avevo
a disposizione era decisamente troppo distante da
quella che avrei desiderato, mi sono fatta da mamma.
Peccato che come modello io abbia usato la mia madre
reale, anziché quella immaginaria, riproducendo
gli stessi comportamenti che razionalmente consideravo
inadatti: invece di essere comprensiva e saggia e
un po' accomodante, sono stata rigida, rigida, rigida.
CONVINTA.
Il risultato è stato un impasse.
ESEMPIO 1
Mia madre fa un'osservazione a mia figlia, e io di
rimando le esprimo un concetto che lei interpreta
come del tipo 'fatti i fatti tuoi'. Si avvia cosi'
il consueto copione: la mamma si ritira nei suoi appartamenti,
preparandosi ad almeno un mese di musi e distanze.
Il suo gelo investe non solo me, ma anche la bambina
e mio marito, e scatena l'altrettanto solita tempesta
di rabbia nel mio stomaco ("d'accordo, io ci
sono abituata, ma perché fa cosi' con la mia
piccolina, cosa c'entra lei, non capisce quanto può
ferirla respingendola?"), oltre che autentica
disperazione ("come posso fare, cosa posso fare
perché lei non sia com'è, perché
lei mi voglia bene?").
Poi ho respirato, e qualcuno mi ha detto "perché
non le hai chiesto scusa e morta li'", e io ho
ascoltato, e capito cosa significava. Significava
che davvero non posso fare niente perché lei
non sia cosi' com'è, ma non è mica necessario
che la mia mamma sia diversa da quello che sia per
volermi bene. Lei mi vuole bene, lo dice in modo diverso
da come è facile capirlo, ma lo dice, e sta
a me leggere il suo amore dietro l'accudimento burbero,
le critiche eccetera, e se mi sento rispondere, come
mi viene e come mi sembra che lei possa capirlo.
Beh, è bastato. Ora io lo sento, questo amore
sconfinato eppure costretto a dirsi in modo tetro
e, come dire, meschino. E se la mia mamma non riesce
a smettere di aggredirmi, io ho imparato (sto imparando)
ad incassare, senza minimamente scalfire la fiducia
che provo nei confronti suoi e miei.
Adesso ho una madre in cui riesco a vedere la mamma,
e basta. E mi sono un po' mamma, con le coccole che
l'altra non è capace di fare - non è
capace, non è che non vuole, bisogna anche
imparare a fare le coccole e quando era il momento
a lei non lo hanno insegnato. Mi chiedo se è
troppo tardi, se magari posso insegnarglielo, poco
alla volta, proprio io.....
In ogni caso, possiamo stare insieme e persino essere
solidali.
ESEMPIO 2
Rientro un venerdi' sera da Alessandria. Siamo in
ritardo, c'era coda, e l'accoglienza è tipo"perché
non avete avvisato, guarda com'è viziata Benedetta,
ti sei dimenticata il pane, come ti sta male quella
maglia". Alzo il sopracciglio, sorrido, glisso.
Allora la mamma mi spara addosso "vuoi sapere
perché sono cosi' ebbene sono cosi' perché
tuo zio ha un tumore". È proprio uno sparo
-il mio zio preferito, un vicepapà, il dolore
che lo aspetta, che ci aspetta - e potrebbe aprire
una voragine, l'avrebbe aperta sei mesi fa, io avrei
gridato "cosa c'entro io, perché me lo
dici in questo modo, cosa ti ho fatto, perché
non piangiamo insieme e ci diamo conforto invece di
litigare?" e sarei scappata via senza aspettare
risposte. Avrei rifiutato la cena, avrei criticato
il minestrone, già che c'ero. Perché
mi ha sparato mia madre? Perché secondo lei
le tragedie vanno raccontate cosi', perché
aveva bisogno di sfogarsi, perché chiede aiuto,
perché si punisce, perché chiede conferma
del fatto che il mondo è una brutta roba e
riserva solo amarezze. Quello che mi sento, quello
che devo/posso fare per lei è di piangere,
abbracciarla molto forte e sollecitarla a raccontare,
come l'ha saputo, chi glielo ha detto, cosa stava
facendo in quel momento, come sta. Lei racconta e
si placa. L'ho ascoltata prima che incominciasse a
raccontare con le parole, l'ho ascoltata raccontare
con il suo comportamento drammatico ed esasperante
e sprovveduto - sono riuscita a capirla.