Puoi
farcela, amico mio
Intervista con Bo Lozoff sul suo lavoro con i detenuti
È da molti anni che Bo Lozoff e la moglie
Sita lavorano con i detenuti, costruendo un ponte
tra quelli che di noi che stanno dentro e quelli di
noi che stanno fuori. E nel 1973 hanno dato vita al
Prison Ashram Project per portare avanti questo loro
lavoro. Quando non si trovano sulla strada, vivono
a Kidness House a Durham, nel North Carolina. Bo è
l'autore di We're All Doing Time e di It's
a Meaningful Life. La seguente intervista, rilasciata
per Turning Wheel, è stata condotta da Diana
Lion a Berkeley, nel novembre del 1999.
D:
Puoi dirci innanzitutto come è cominciata la
tua attività nelle carceri?
BL: Mia moglie Sita ed io eravamo attivisti
radicali negli anni sessanta, in un'epoca di scenari
piuttosto violenti, e fummo subito bruciati. Allora
ci siamo ritirati su un barca a vela per un po' di
tempo, per navigarcene via da tutto. Ci ha calmato
lo spirito stare nell'oceano.
Mio cognato e il capitano della barca usarono l'imbarcazione
per contrabbandare due tonnellate e mezzo di erba.
Sita ed io lasciammo la barca, e quando loro furono
presi e condannati a lunghi periodi di detenzione,
noi cominciammo il nostro lavoro nelle carceri.
Poco dopo abbiamo seguito un corso di meditazione
e partecipato a un ashram nel North Carolina. È
in quel periodo che siamo diventati amici di Ram Dass.
Aveva mandato delle copie di "Be Here Now",
il suo primo libro, in varie prigioni del paese, e
continuava a ricevere lettere dai detenuti che l'avevano
letto. Mi chiese se volevo occuparmi della corrispondenza.
Abbiamo così dato avvio a un bollettino periodico,
perché molte domande erano simili tra loro:
"Come faccio ad essere gentile in prigione senza
che venga interpretato come segno di debolezza?",
"Come si fa a meditare quando c'è tanto
rumore intorno, di giorno e di notte?".
Il progetto è nato spontaneamente. Con nostra
sorpresa, la maggior parte delle persone che ci scrivevano
non avevano mai sentito parlare di meditazione o di
yoga. Si trattava della tipica popolazione carceraria,
gente senza istruzione, gente che aveva subito violenza
nell'infanzia. Erano persone perdenti per la terza,
quarta, quinta volta. Questo ci obbligava a essere
molto diretti e a non tergiversare, per poter essere
sinceri con gente del genere, e al tempo stesso avere
qualcosa di utile da dir loro.
D: Puoi spiegarlo con un esempio?
BL: Il mio primo gruppo di lavoro in carcere
è stato nel 1974, presso il braccio della morte
della Prigione Centrale di Raleigh, nel North Carolina.
Avevo 27 anni e non ero mai stato prima nel braccio
della morte. Per tutto il tragitto avevo il cuore
in gola e pensavo: "Che diavolo andrò
a dire a questi? Saranno probabilmente neri, che hanno
subito forme di razzismo per tutta la vita, inferociti
col sistema. E io sono un ragazzo bianco qualsiasi
che arriva da un ashram. Che ho da dire a questa gente?
Chi mi credo di essere?".
Quando sono arrivato, mi sono ritrovato in una stanza
chiusa a chiave con uno psicologo e sette detenuti
del braccio della morte, e la guardia che diceva:
"Tornerò tra un paio d'ore". Non
appena mi sono seduto, un musulmano nero ha cominciato
a urlarmi contro: "Chi diavolo ti credi di essere,
un ragazzetto bianco che viene nel braccio della morte,
e noi siamo uomini neri del sud!". Continuò
per un bel po' a inveire con rabbia. E quando ebbe
finito, disse: "E adesso cosa hai da dire?".
E io gli ho detto: "Sai, stavo pensando proprio
le stesse cose che hai detto tu, mentre venivo qui.
E non sono tanto sicuro di avere qualcosa da dirvi,
e mi dispiace tanto". Questo in un certo senso
lo svuotò della sua rabbia. Si calmò
e disse: "Possiamo parlare un po' e vedere se
c'è o non c'è qualcosa di cui parlare".
E alla fine abbiamo fatto un ottimo lavoro di gruppo.
Si è svolto tutto in un clima di tenerezza
e sincerità, e alla fine lo psicologo ci ha
fatto delle foto: il musulmano nero aveva il braccio
intorno alle mie spalle.
Da quella esperienza ho imparato che la prima cosa
da stabilire è la sincerità più
assoluta. Se non ti senti una persona speciale, puoi
essere accolto con una certa fiducia. In quel primo
incontro ho imparato anche che ciò che la gente
davvero vuole è l'amicizia. Ci deve essere
una qualche forma di affetto. Penso che molti assistenti
spirituali siano più concentrati su quello
che hanno da offrire piuttosto che sulle persone a
cui offrono. Prima è necessario porsi come
amico, e dopo potrai dire: "Questa meditazione
ha fatto cose eccezionali nella mia vita, ed è
per questo che voglio condividerla con te".
D: In che misura la tua personale esperienza
spirituale ha influenzato il tuo modo di lavorare
in prigione?
BL: Noi fin dall'inizio abbiamo impostato il
nostro lavoro sull'amicizia spirituale. Il messaggio
chiaro del mio guru Neem Karoli Baba è di onorare
tutte le tradizioni. Diceva sempre che tutte le religioni
si equivalgono. È come il sangue: attraversa
il cuore e tutto il resto del corpo, ma è sempre
uno. Come disse sua santità il Dalai Lama quando
eravamo con lui in India: "Non è che state
cercando di fare dei nuovi buddhisti in prigione,
vero?". Io risposi: "No, non io!".
E aggiunse: "Perché il mondo non ha bisogno
di nuovi buddhisti". E io: "Ma allora perché
ci hai invitato a raccontarti del nostro lavoro in
prigione?" E lui: "Perché è
chiamata la Fondazione della Gentilezza Umana, ed
è questo il punto. Non abbiamo bisogno di convertire
altre persone a una certa religione: abbiamo bisogno
di gentilezza e amicizia compassionevole".
Abbiamo lavorato con centinaia di migliaia di detenuti
negli ultimi ventisei anni. E abbiamo imparato molto
sull'amicizia. La gente pensa erroneamente che quando
qualcuno ha una malattia terminale gli si debba dire:
"Oh, quanto sei coraggioso. Ammiro la tua forza
d'animo! Io credo che non ce l'avrei mai fatta se
fossi stato nella tua situazione". Ma sentirsi
dire cose del genere non porta alcun beneficio al
malato. Noi crediamo, così facendo, di dimostrare
lode e ammirazione, ma non è così. Quando
uno è in una situazione disperata come la detenzione
o una malattia terminale, ha bisogno di sentirsi dire:
"Ce la puoi fare. Ce la farai, amico mio. Ti
è stato dato un compito durissimo. Ma tu ce
la puoi fare".
Ma ci deve essere un supporto dietro. Dobbiamo essere
convinti, grazie alla profondità della pratica
e alla profondità dell'insegnamento, che anche
noi ce la potremmo fare. Se diciamo: "Oh, io
in prigione impazzirei. Non ce la farei a reggere",
non siamo di alcun aiuto. Questo genere di parole
tende a trasformare il detenuto in una figura romantica
decisamente inappropriata, e a pompare il suo ego.
E questo non serve a nulla: il detenuto ha già
un ego abbastanza grande.
Siamo tutti sulla strada dell'annichilazione dell'ego
insieme. Stiamo tutti imparando a trattarlo, qualsiasi
esso sia.
D: Come vi ponete nei confronti delle azioni
compiute dai carcerati, quelle che hanno causato la
loro detenzione?
BL: Siamo tutti sulla stessa barca. Tutti noi
abbiamo a che fare con le conseguenze delle nostre
azioni. Ma nel nostro attuale sistema di giustizia
penale, la punizione è talmente più
dura del crimine che non la considero "dente
per dente"
Cerchiamo di aiutarli ad assumere una visione più
profonda. Diciamo: "Nessuno di noi capisce perché
una certa cosa accada a me, o perché accada
a te, ma 'perché'?" È la domanda
dello sciocco. Ed esistono insegnamenti che hanno
attraversato i secoli, in tutte le grandi tradizioni,
proprio per queste circostanze".
Non è difficile portare gli insegnamenti del
dharma in situazioni critiche come il carcere o un
reparto di malati terminali. È proprio a questo
che servono gli insegnamenti del dharma. Allora noi
non facciamo altro che riconoscere: "La tua situazione
è davvero tremenda. E l'insegnamento di tutti
i tempi è sempre stato questo: ognuno di noi
ha la possibilità di cominciare a risvegliarsi
nel bel mezzo di tutto quanto, senza stare ad aspettare
che qualcosa migliori. Vuoi farlo, o no? Starai in
questa situazione per il resto della vita? Beh, vuoi
che resti per sempre un luogo tanto violento, rumoroso,
infernale? Perché non cominci a riunirti con
altre persone a cui, come a te, non piace la situazione
e non vi organizzate in una comunità, in modo
tale da cambiare le cose?".
D: C'è stata un'esplicita influenza
buddhista nel tuo lavoro?
BL: Per me si tratta sempre di amicizia. È
stata questa l'indicazione del mio guru fin dall'inizio.
Non si tratta di convertire la gente al tuo percorso
personale. Si tratta invece di utilizzare ciò
che il tuo percorso ti ha offerto, per andare a portare
amicizia. Qualsiasi grande tradizione spirituale aiuterà
la gente a sviluppare la compassione e il rispetto
per gli altri, nonché ad avvicinarsi al grande
mistero del proprio cuore. Spesso il ruolo che svolgo
nella vita del carcerato è semplicemente di
essere il primo a dirgli: "Ascolta, la vita è
qualcosa di molto molto profondo, e tu non hai agito
in modo tale. Tu sei un individuo profondo e hai bisogno
di una visione filosofica profonda. Buddha, Cristo,
parlano entrambi della stessa cosa".
D: Ti capita mai di lavorare con qualcuno per
il quale non provi sentimenti di amicizia?
BL: Ho fatto qualcosa come cinque o seicento
lavori di gruppo nelle carceri, perfino in India,
e ogni volta che entro in un istituto di pena, lungo
il tragitto che compio per raggiungere la stanza in
cui si svolgono gli incontri, ho sempre quella stessa
sensazione che ho avuto la prima volta. "Che
diavolo dirò a questa gente?". Comincio
sempre con qualche secondo, o addirittura minuto,
di concentrazione, a occhi chiusi. La mia preghiera
è: "Che io possa rispettare tutti in questa
stanza". Quando riapro gli occhi e mi guardo
intorno, mi sento pieno del rispetto e dell'affetto
necessari. E poi, semplicemente, parlo dal cuore.
Quindi mi è difficile pensare che ci sia stato
qualcuno che mi abbia preso per il verso sbagliato.
Queste persone affrontano molte difficoltà
per arrivare in quella stanza, mettersi seduti e ascoltare
uno che come me parla di questo genere di cose. E
molti loro amici li prendono in giro per il solo fatto
di parteciparvi.
D: Ricordo che una volta dicesti che la persona
più odiata d'America era Timothy McVeigh, ma
che tu non ti potevi proprio permettere di odiarlo
perché magari sarebbe stata la prossima persona
a scriverti. Ti è mai successo di dover superare
la repulsione per qualcosa che qualcuno aveva fatto?
BL: Certo. Ero presente all'atto della sentenza
di condanna a morte al processo di un giovane texano.
Scriveva bellissime lettere, un uomo davvero intelligente,
ed eravamo legati da profonda amicizia. Quando sono
andato al processo, l'accusa aveva fatto appendere
alle pareti dell'aula del tribunale gigantesche fotografie
a colori della vittima. Sapevo quello che aveva fatto,
ma non i dettagli precisi di come avesse ucciso la
ragazza e in quali circostanze.
E ho dovuto guardare quelle immagini. È allora
che mi sono reso conto che la mia amicizia con lui
era stata un po' semplicistica, soprattutto quando
mi parlava del perdono che lui rivolgeva a chi gli
aveva fatto torto e a chi aveva cercato di condannarlo
a morte. Sei tu a perdonare? Porca miseria!
Bisogna essere molto cauti quando si tratta della
sofferenza che uno ha causato. Io ho bisogno di sentire
che la persona è davvero sincera quando racconta
del dolore che ha causato al prossimo. Secondo me,
il percorso del risveglio è proprio il processo
di diventare integri. E non credo si possa intraprendere
quel cammino se si va avanti lasciandosi alle spalle
un passato di sofferenze nascoste.
Alcune delle persone con cui lavoriamo hanno commesso
azioni davvero orribili, odiose. Questo non significa
che non possano avere un'anima degna, o che non abbiano
ancora tutti i motivi che li hanno spinti a fare quel
che hanno fatto. Ma noi non stiamo dalla parte di
nessuno. Quel che facciamo è lavorare con il
dharma, non il mestiere dell'avvocato. Cerchiamo di
aiutare le persone a risvegliarsi, che si tratti della
vittima, del poliziotto, del giudice o del carcerato.
Tutti hanno la possibilità di risvegliarsi,
anche se la pistola è ancora fumante, anche
se la vittima sta ancora sanguinando. Tutti abbiamo
la possibilità di risvegliarci.
D: A volte mi sento sopraffatta dalla quantità
di lavoro che c'è da fare. Tu cosa fai per
riuscire a rendere sopportabile tutto il lavoro che
hai?
BL: Accetto l'insuccesso, e poi faccio quel
che posso. Credo che ci troviamo un po' tutti in cattive
acque. E ci facciamo scolare via dallo sciacquone
del gabinetto della vita molto in fretta. A parte
gli scherzi, non credo proprio si possa sperare in
un autentico cambiamento che porti a un'era di compassione
nelle istituzioni, quindi non mi sento poi tanto frustrato
dagli insuccessi. Ma ci sono persone che davvero soffrono
e combattono alle quali poter dare amicizia. E immediatamente
è il regno dei cieli. C'è subito un
successo. Perché quando siamo coinvolti l'un
l'altro in modo compassionevole, con amicizia e buona
volontà, immediatamente tutto "funziona".
Abbiamo successo in continuazione.
D: Come hai coinvolto i detenuti stessi nel
tuo lavoro?
BL: Dico sempre ai detenuti che loro sono la
risorsa più trascurata e che devono invece
diventare l'elemento attivo. Noi arriviamo lì
e insegnamo loro la meditazione, le varie prospettive
con cui guardare al prossimo, e lo facciamo in modo
tale che loro possano guardarsi intorno, mentre la
mente si schiarisce e il cuore si apre, e possano
agire. A volte scoprono cose da poter fare in cella
che noi non ci saremmo mai sognati.
D: Per esempio?
BL: Beh, c'è Tall Tom in Texas. Si trova
in una delle peggiori prigioni, e un giorno c'è
stato un furto: una radio è stata rubata nel
suo braccio. Questo genere di cose può innescare
parecchia violenza, perché se consenti una
volta di essere fatto a pezzi, tutti ti faranno a
pezzi per ogni cosa. Allora pensi di dover reagire
e ti chiedi cosa fare. Ma Tall Tom convinse il carcerato
derubato a non cercare di vendicarsi in modo brutale.
Attaccò invece un avviso nel braccio che diceva:
"C'è un ladro da queste parti, e noi sottoscritti
troviamo inaccettabile di dover vivere in un luogo
dove ci si debba preoccupare di quelli che rubano.
È incivile, non ci fa onore, e non lo possiamo
tollerare". Quasi tutti i detenuti del braccio
lo firmarono, e non ci fu più nessun furto.
Gente come Tall Tom ce ne è un po' dappertutto.
Serve solo dare a Tom Tall gli strumenti per acquietare
la mente e aprire il cuore, e poi metterci da parte
e stare a guardare.
D: Riceviamo molte lettere da gente che ci
dice: "Cosa posso fare? Sono un carcerato, non
ho denaro, il novanta percento del mio tempo lo trascorro
chiuso in cella". Cosa possiamo dire loro?
BL: Ci scrive molta gente in queste condizioni,
e noi allora proponiamo una meditazione che si può
fare per un'ora al giorno: comincia rivolgendosi col
cuore alle persone che ci stanno intorno e augurando
loro ogni bene. Poi l'augurio si estende man mano
fino a comprendere l'universo intero, ma inizia proprio
con i detenuti e le guardie.
Inoltre incoraggiamo la gente a informarsi di quel
che accade ne proprio carcere. In molti istituti di
pena esistono già iniziative in cui i detenuti
cercano di svolgere attività positive.
Non siamo noi a dover pensare a tutte le cose possibili
da fare. Forniamo solo gli strumenti e le idee con
cui poter acquietare la mente e aprirsi alla compassione.
E poi diciamo: "Ora guardatevi attorno e fatevi
venire in mente qualcosa da fare. Siete voi che vivete
qui. Potete fare qualcosa. C'è sempre qualcosa
da fare".
D: Hai mai pensato a come reagiresti se tuo
figlio Josh venisse assassinato?
BL: Beh, tutta questa questione del dharma
riguarda le situazioni peggiori, le più dure.
Le uniche due opzioni sarebbero: o che io applichi
questi insegnamenti in cui credo profondamente anche
in quella che sarebbe la più terribile delle
situazioni, oppure che io non ci riesca per una mia
personale debolezza. E non credo che sarebbe puramente
casuale quale delle due vie seguirei. Se arrivassi
nel momento in cui accade, potrei anche ammazzare
l'assassino, ma se invece avessi il tempo di chiedermi:
"Quello che provo è giusto, per duro che
sia?" ... beh, chi ha una fede profonda sa che
l'odio non è mai vinto dall'odio, che solo
l'amore lo può vincere. È difficile,
è tremendo, ma c'è gente che vive con
questa convinzione".
Ho fatto circa un anno di ritiro, e uno degli esercizi
che praticavo ogni giorno era ripetere il mantra:
"Qualsiasi cosa possa accadere a un essere umano
può accadere a me, e io lo accetto".
La disponibilità a essere un essere umano è
la disponibilità a lavorare con questo mantra.
"Qualsiasi cosa possa accadere a un essere umano
può accadere a me, e io lo accetto". Non
"mi piace", ma "lo accetto". E
così, nel corso di quel ritiro, ho acquistato
una più profonda disponibilità alla
vita, una disponibilità a essere coinvolto
nella grande avventura dell'esistenza, dove accadono
anche cose orribili alle persone, e possono accadere
tanto a te quanto a me. Dobbiamo sapere, se vogliamo
dire a qualcuno: "ce la puoi fare", che
anche noi possiamo farcela, e dobbiamo crederci davvero.
Tratto
da Turning Wheel. Summer 2000
Traduzione di Laura Bisogniero
Per chi fosse interessato è disponibile
presso la redazione la copia in lingua italiana
del video "Doing time, doing vipassana"
che racconta la straordinaria esperienza dell'introduzione
della meditazione di vipassana nel carcere di
Nuova Delhi, uno dei peggiori dell'India. |