Dal
22 al 26 maggio di quest'anno, a Casaprota, si è svolto un ritiro
di meditazione condotto da Frank Ostaseski, focalizzato sull'incontro con
la morte e la perdita, considerati come 'mezzi abili' per imparare a vivere
la vita con pienezza. Di grande aiuto e ispirazione, per la maggior parte
dei presenti, sono state le poesie e le testimonianze che Frank ha saputo
porgere con delicatezza, introducendo di volta in volta nuovi, preziosi
compagni di viaggio. Maria Housden, ha raccontato in un libro, che ci auguriamo di vedere presto tradotto anche in italiano (Hannah's Gift: Lessons from a Life Fully Lived), la perdita della propria figlia, ancora bambina. Il testo che segue è la trascrizione di alcuni brani del libro che sono stati letti, non sempre seguendo il testo parola per parola, durante il ritiro. |
Cominciammo entrambe
a sanguinare lo stesso giorno. Sognai lentamente, uscendo da un sonno profondo,
stesa sul letto con gli occhi chiusi, respirando la fredda aria del mattino
che entrava dalla finestra aperta. Voltandomi su un fianco, sentii un calore
appiccicoso tra le gambe, mi svegliai di colpo. Feci scivolare una gamba sull'altra
e nel muoverle sentii una sensazione di risucchio.
Riunii le gambe e chiusi gli occhi: avrei voluto continuare a sognare. Tutto
era silenzioso, a parte il battito del mio cuore; udii un'altra macchina passare
e poi un'altra ancora. Aprii di nuovo gli occhi, questa volta più lentamente.
La luce stava cominciando a disegnare i contorni degli oggetti nella stanza.
Mi passai una mano sull'addome, la sua pienezza e leggera rotondità mi
rassicuravano: dopo tutto soltanto ieri la piccola microscopica forma del bambino
dentro di me era apparsa sullo schermo della macchina del dottore. Ero stesa
vicino a Claude, in ansia tra il voler sapere e il non voler sapere. Finalmente
scivolai fuori dal letto, attenta a non strusciare con le cosce sulle lenzuola.
Appena mi alzai, sentii un rivolo caldo scorrermi lungo le gambe, raccolsi una
goccia di quel liquido sulla punta del dito: sangue. Misi una mano a coppa sotto
di me per evitare di bagnare il tappeto e, in punta di piedi, andai in bagno.
Proprio in quel momento sentii Hanna che chiamava dalla sua stanza al piano
di sopra: "Mamma, devo andare in bagno". Presi della carta igienica
e mi pulii; guardai la mia immagine nello specchio. Mi gettai dell'acqua fredda
in faccia e mi incamminai verso la stanza di Hanna.
Sentii tutta la sua dolcezza mentre mi veniva in braccio. Mi chiedevo: "Come
farò a dire a Claude, o a chiunque altro, che ho avuto un altro aborto?"
Provavo un profondo senso di delusione: perdere il bambino significava che avrei
fallito ancora.
Quando Hanna ebbe finito, la sollevai dal gabinetto e improvvisamente fui catapultata
fuori dal mio dolore. L'urina di Hanna era rosa acceso: sangue. Gli aborti li
conoscevo, il sangue nell'urina di una bimba di due anni no. (
)
Attraversammo il parcheggio dopo la seconda seduta di chemioterapia di Hanna:
era l'inizio di settembre, una settimana circa prima del suo terzo compleanno.
Le sue scarpette rosse ticchettavano sull'asfalto mentre camminava accanto a
me. In una mano portava il piccolo cestino della merenda con dei cracker e il
succo di mela mentre io la tenevo per l'altra, facendo attenzione alle macchine
che cercavano un posto nel parcheggio affollato.
"Mamma, ma i bambini muoiono?" mi fece la domanda con lo stesso tono
con cui avrebbe potuto chiedere: "Da dove vengono i bambini?", senza
nessuna traccia di paura o preoccupazione. Si era girata e mi guardava, aspettando
una risposta. Mi dimenticai delle auto nel parcheggio, delle apparecchiature
dell'ospedale: la domanda di Hanna mi risucchiò, completamente, presente
nel mio corpo. Esitai prima di rispondere, avrei voluto poterle dire che i bambini
non muoiono e che, anche se muoiono, è una cosa davvero rara e che lei
non doveva preoccuparsene. Ma sapevo che non era vero e sapevo che anche Hanna
lo sapeva. Anche se la sua domanda sembrava semplice, scese come una goccia
sulla superficie lucida di un lago molto più profondo.
Hanna non mi stava chiedendo se i bambini muoiono, mi stava chiedendo se ero
disponibile ad ammettere che lei sarebbe potuto morire. Si domandava se era
lei l'unica a sapere o se anche io ero disposta a sapere. Guardando nei suoi
occhi mi ricordai come per anni avevo vissuto la mia vita dietro una cortina
di paura; avevo fatto scelte, mi ero sentita obbligata e responsabile perché
avevo paura di non essere amata. Non volendo ferire i sentimenti degli altri
o sfidare l'autorità ero stata una brava ragazza, pronta ad aiutare,
responsabile, amata non per ciò che ero ma per ciò che volevo
che la gente credesse di me.
Nel mese appena trascorso, da quando Hanna si era ammalata, sentendo che non
avevo niente da perdere, finalmente avevo cominciato ad essere onesta con me
stessa e con la vita. Sapevo anche che ogni verità che avrei affrontato,
da quel momento in poi, sarebbe stata senza senso se non ero disposta o capace
di confrontarmi con essa. "Sì, Hanna, a volte i bambini muoiono"
le dissi. Un'altra goccia giù nel lago. Ma prima di avere il tempo di
ripensarci, una domanda mi saltò fuori dalla bocca: "Tu lo sai cosa
succede quando muoiono?", chiesi. Silenzio, non un respiro. "Uhm,
uhm", disse "vanno in cielo a tenere compagnia a Dio", mi strinse
la mano con più forza e come un coniglietto si mise a saltellare sul
marciapiede.
Maria aveva un altro figlio, di qualche anno maggiore di Hanna. Nel periodo
della malattia di Hanna, Maria, dopo l'aborto, restò di nuovo incinta
e poco dopo la morte di Hanna nacque una bambina. Il prossimo brano si riferisce
a un periodo successivo della malattia di Hanna.
Hanna parlava sempre meno, ogni parola poteva essere l'ultima. "Mamma,
dov'è Will?" chiese quasi con un sussurro. Will si girò e
si mise a sedere, stava disteso sul pavimento a guardare un film col volume
così basso che praticamente era muto. "Sono qui, Hanna" disse
dolcemente, continuando a guardare la tv. Hanna piegò la testa da una
lato, abbastanza da poterlo guardare e si guardarono a vicenda, tranquilli.
"Will" chiese Hanna "lo sai che sono troppo malata per giocare
ancora?" Io avevo paura di parlare, paura di respirare, mi chiedevo che
cosa avrebbe detto Will. "Sì, Hanna, lo so" disse piano, "ti
fa sentire triste?" Hanna fece una pausa, sempre guardandolo: "No"
disse, scuotendo la testa. Allora tutti e due si voltarono verso di me e mi
accorsi che i loro occhi osservavano i ciuffi di capelli che mi uscivano dal
berretto, guardavano la mia fronte corrugata, le palpebre pesanti, il pallore
del volto. Non mi sentivo così stanca come sapevo di sembrare Provavo
meraviglia, resa umile per la semplicità con cui erano entrati in uno
dei momenti più intimi che due persone possano condividere. In un solo
respiro loro due mi avevano fatto vedere fino in fondo in che cosa consiste
dire la verità e vivere la verità.
(
)
Hanna mise la sua bambola a sedere sul pavimento di fronte a sé e guardò
mia madre. "Mi prometti una cosa, nonna?", chiese, "Certo Hanna"
le disse mia madre guardando la Barbie mezza vestita, sulle ginocchia. "No,
nonna, voglio che tu mi prometta una cosa" disse Hanna con calma. Gli occhi
di Hanna erano fissi sui suoi, intenti, seri. "Sì, Hanna, qualunque
cosa," disse "qualunque cosa". Hanna restò in silenzio,
mia madre aspettava. "Nonna," disse infine "voglio che tu mi
prometta che non mi dimenticherai mai". Gli occhi di mia madre si riempirono
di lacrime, quelli di Hanna erano asciutti, fissi su quelli di mia madre, aspettava
la sua risposta. "Lo prometto, Hanna, non ti dimenticherò mai"
disse mia madre.
(
)
"È arrivato il momento, mamma?" chiese. "Sì, Will"
dissi. Lui si chinò, carezzò i capelli di Hanna e la baciò
sulla cima della testa. "Ti voglio bene, Hanna" disse. I suoi occhi
si rivolsero verso di lui, si guardarono per un attimo poi Will guardò
verso di me: "Mamma, voglio aspettare giù. Appena Hanna muore vieni
a chiamarmi, va bene?" Feci di sì con la testa, lui baciò
Hanna ancora una volta: "Ricordati, Hanna, ti voglio bene" disse,
poi si voltò e lasciò la stanza.
Alle tre meno dieci la macchina di Claude entrò nel viale, sentii i suoi
passi salire le scale, poi aprì la porta di scatto: "Che succede?"
domandò a Pat, che era seduta con la pompa della morfina. "Hanna
sta morendo". Gli dissi, più calma di quanto riuscissi a credere,
"Ti stava aspettando, devi dirle che va bene, che vada". Claude cadde
in ginocchio, emise un gemito basso, il corpo era scosso dai singhiozzi. Alzò
la testa, si chinò su di lei e la baciò: "È tempo
che tu vada, signorina" disse "Non ti preoccupare di noi, ti vogliamo
bene, andrà tutto bene". Anche se il corpo di Hanna continuò
a combattere per oltre venti minuti, certe parti di lei erano già libere:
un attimo era viva e respirava e l'attimo dopo non più. Non riuscivo
a credere che potesse sembrare così inatteso; la guardai negli occhi.
Solo il sole, la stanza si era riempita con una quiete quasi palpabile che ci
avvolgeva in una pace bianca, densa.
Circa tre settimane dopo la morte di Hanna, nacque la sorellina e tre anni dopo
ne nacque un'altra: Margaret e Madlin. Vorrei leggervi ora un altro brano, ma
prima devo dirvi ancora qualcosa di Hanna.
Hanna aveva delle scarpette rosse che metteva sempre, ci andava dappertutto.
Quando la mamma la portava a comprare le scarpe e le voleva comprare delle scarpe
comode, nere, Hanna voleva quelle rosse e diceva: "Vanno bene con tutto".
Tutte le volte che andava in ospedale portava sempre lo stesso pigiama a cui
aveva dato un nomignolo, lo chiamava "robie jass".
Hanna fece molti cicli di chemioterapia e molti test e dunque era stata bucata
da tanti aghi. Ma ogni volta che le mettevano un ago chiedeva un cerotto speciale,
a volte con degli animaletti disegnati sopra, a volte colorati e li conservava
tutti, aveva una collezione di tutti i sui cerotti.
Margaret aveva compiuto tre anni durante l'estate, lei e Madlin erano come due
scimmiette, stavano sempre insieme: dovunque andasse Margaret, Madlin la seguiva.
In quei giorni stavano facendo un sacco di domande sulla loro sorella maggiore,
Hanna. Era il momento, decisi di mostrare loro la scatola delle cose speciali
di Hanna. L'avevo appena tirata fuori da sotto il letto quando squillò
il telefono: "Aspettate un attimo, bambine, torno subito" dissi. "Sì,
mamma" risposero. Avrei dovuto pensarci meglio! Corsi da basso e alzai
il ricevitore: era la mamma di uno dei ragazzi della squadra di pallacanestro
di Will che mi chiedeva le indicazioni per la partita di quella sera. Le diedi
tutte le indicazioni e poi domandai di quella pizza che dovevamo organizzare
alla fine della stagione per tutta la squadra. Parlando mi dimenticai del tempo,
ma all'improvviso mi ricordai che Margaret e Madlin mi stavano aspettando. Avevo
appena finito di salutare quando sentii le bambine scendere le scale. "Non
sono bella, mamma?" mi chiese Madlin. "E io mamma?" domandò
Margaret. Riattaccai il telefono e mi voltai: Madlin aveva indossato il "robie
jass" a fiori rosa di Hanna: la camicia da notte era così lunga
che se la era arrotolata intorno alla vita per non inciampare! Poi tese il piede
verso di me: "Guarda mamma, sono perfette" disse. Era vero, aveva
le scarpe rosse di Hanna ai piedi!
"Ho aiutato io Madlin ad allacciarle" disse Margaret; mi voltai allora
verso di lei. Fino a quel momento ero stata così presa da ciò
che indossava Madlin da non notare ciò che aveva addosso lei: ogni centimetro
di pelle nuda, dalla testa alle dita dei piedi era ricoperto dalla collezione
di cerotti di Hanna. Tutte e due stavano lì in piedi, sorridendo.
Fino a quel momento non mi ero resa conto che, da quando Hanna era morta, ero
vissuta nel timore che i miei ricordi di lei sarebbero svaniti se non fossi
stata capace di conservare la magia di quelle sue cose speciali. Ora che l'incantesimo
si era rotto, sapevo che c'era ancora più vita da vivere in quei cerotti,
nel "robie jass" e nelle scarpette rosse. Dovevo lasciare che i ricordi
di Hanna uscissero dalla scatola e dovevo lasciare uscire anche me. Guardando
Margaret e Madlin sorridermi, non sapevo se ridere o scoppiare in lacrime: "Siete
splendide" dissi finalmente, chinandomi e aprendo le braccia mentre le
due bambine ridacchiando si stringevano sul mio grembo. Anche Hanna avrebbe
pensato lo stesso.
Dopo la lettura di questi brani del libro di Maria Housden, in un clima di
intensa commozione, c'è stato un momento di condivisione tra i presenti
al ritiro.
Riprendiamo solo la breve risposta di Frank Ostaseski ad una domanda che spesso
è centrale per chi si trova ad assistere una persona ormai in fin di
vita.
D: Come faccio a dire a mia madre che per lei la soluzione sarebbe accettare
il fatto che deve morire, e che questo sarebbe tanto meno doloroso? Che non
succederà oggi ma, diciamo, tra poco, che non potrà comunque venirne
fuori?
Frank: Non glielo dire: non è compito tuo dirglielo ora, lo scoprirà
a modo suo. Amala e basta. La gente arriva ad accettare quando è circondata
da amore, non da forza o da paura. Amala.