La figura di Etty Hillesum
Intervista con Nadia Neri
a cura di Roberto Mander


D: Lo scorso gennaio si è svolto a Roma un importante convegno su Etty Hillesum. Fino ad oggi possiamo dire che si tratta di una figura che è sempre rimasta abbastanza in secondo piano. Il tuo libro, "Un'estrema compassione" (Bruno Mondadori, 1999) ha il grande merito di averne parlato in maniera compiuta, come non era stato ancora fatto in Italia. Eri anche tra le relatrici di quel convegno, che cosa pensi di questo interesse che va crescendo intorno alla figura di Etty Hillesum?
R: Penso che ci siano stati due aspetti molto positivi: innanzitutto che si sia parlato per la prima volta di lei su larga scala. C'è stata un'attenzione, una quantità e una qualità di ascolto inaspettato per tutti. E questo possiamo vederlo come un segno di speranza. C'erano moltissimi ascoltatori che non avevano mai sentito parlare di lei prima di allora. Il secondo aspetto positivo è che chi ha organizzato il convegno ha voluto rendere attuale il discorso di Etty Hillesum nel mondo di oggi. Ed è stato così che all'Università di Roma Tre c'è stato un incontro secondo me molto importante in cui donne provenienti da zone di guerra o di grande violenza hanno raccontato le loro esperienze. E si è trattato sicuramente di un momento molto intenso e commovente. Potremmo poi forse aggiungere un terzo elemento, ossia il lavoro e il materiale che è stato prodotto in molte scuole di Roma.

D: L'importanza della testimonianza di Etty Hillesum nel mondo di oggi, in cui il tema dell'intolleranza tra gli umani è più feroce che mai. Tu hai intitolato il tuo libro su Etty Hillesum "Un'estrema compassione": compassione è un termine abbastanza abusato, mal compreso e, invece, per te diventa la porta di ingresso per entrare nella testimonianza di Etty.
R: Vorrei spiegare anche la parola 'estrema', che ho inteso in due sensi: perché Etty Hillesum testimonia questo sentimento in una situazione estrema, quella di un campo di concentramento nazista. Ma estrema anche perché lei porta la sua testimonianza fino all'estremo. Ciò non significa affatto che ha cercato la morte come spesso si equivoca parlando dell'ultima parte della sua vita. Etty scrive il suo diario dai ventisette ai ventinove anni, dal 1941 al '43; nel novembre del 1943 muore ad Auschwitz. Con molta chiarezza scrive che non vuole nascondersi né vuole fuggire, anche se ne ha avuta la possibilità. Forse dobbiamo partire proprio da qui per capire bene l'originalità di Etty. Lei spiega la sua scelta con vari motivi e i più profondi, secondo me, sono questi: dice che non sopravvivrebbe ai sensi di colpa sapendo che un'altra persona sarebbe morta al posto suo. A questo aggiunge che sicuramente lei potrebbe nascondersi o fuggire perché appartiene a una famiglia di intellettuali e quindi ha tutta una serie di amici che le offrono tale possibilità. L'ebreo povero, invece, non ha questa opportunità, dunque fa anche un discorso politico sociale. Anche per questo motivo le sembra ingiusto accettare gli aiuti che le vengono offerti. Non è una scelta di masochismo, scrive, e qui sembra già prevedere gli equivoci che nasceranno. Anche perché forse queste erano le critiche che in modo affettuoso le facevano gli amici per cercare di convincerla.
Questo dimostra un aspetto di Etty che mi ha sempre molto commossa, lasciandomi proprio senza parole: ossia la capacità di capire delle cose così profonde in contemporanea ai fatti che viveva. Cioè, mentre subisce la persecuzione antisemita, capisce già tutti gli effetti che poi in seguito vari autori hanno testimoniato, cioè il tema del sopravvissuto che non viene creduto quando torna a casa e vuole raccontare e che, allo stesso tempo, si sente in colpa in quanto vivo. Etty intuisce tutto questo tra l'altro in modo semplice, perché parla solo per sé. La sua scelta - scrive - non deve valere per tutti: è che lei non se la sente di fuggire o di nascondersi, perché è convinta che non sarebbe potuta sopravvivere ai sensi di colpa.
Resto sempre molto colpita davanti a questa sua capacità di vedere lontano, di vedere in profondità. Per noi oggi appare ovvio perché abbiamo tanti studi, anche in campo psicoanalitico, che lo confermano. Secondo me, che lei lo abbia capito fino in fondo, e così in giovane età, tanto da metterlo in pratica e di non fuggire, è un fatto che va sottolineato.

D: Cosa pensi degli equivoci che si sono generati intorno a questa sua scelta?
R: Credo che Etty da una parte sia compresa, ma dall'altra è difficile per molti accettare una scelta del genere. Per lei si prova come un senso di rabbia, quasi infantile, che una persona così dotata da tanti punti di vista sia poi morta, uccisa nel lager. E questo, come ho riscontrato in diversi studiosi, ha spinto molti di noi a cercare di portare avanti i suoi pensieri, le sue riflessioni al posto suo. Secondo me lei voleva continuare a vivere, per costruire appunto - scrive nel diario - un mondo migliore. Diceva che proprio gli ebrei avrebbero dovuto essere quelli ad avere la prima parola nel dopoguerra. Non è una persona stanca della vita, che vuole morire; tra l'altro va ad Auschwitz da Westerbork. anche per una serie di coincidenze sfortunate. Vedi su questo punto il capitolo del mio libro, "Etty e Westerbork".

D: Non vuole lasciare che il padre e la madre partano da soli?
R: Sì, questo da una parte. Sui genitori, secondo me, dice una cosa molto profonda, che troviamo anche nel Vangelo. "Abbandona anche i tuoi genitori e seguimi".
A livello psicologico non ce la fa a reggere il destino dei genitori da vicino, infatti spera sempre di non partire con lo stesso convoglio e su questo, purtroppo, non è stata esaudita. Etty dice chiaramente che riesce ad aiutare gli altri, ma meno i propri genitori, perché c'è un coinvolgimento emotivo e psichico che rende ciò quasi insostenibile, aggiungo io. È un discorso forse non popolare, ma che chi ha una familiarità all'introspezione capisce molto bene.
Ma ora vorrei tornare alla seconda parola del titolo del mio libro, 'compassione'. È vero che si tratta di una parola spesso non usata correttamente. Credo che in lei si possa delineare come un cammino, un passaggio da una virtù all'altra. Nell'introduzione ne ho individuato tre che - seguendo Todorov - ho chiamato virtù quotidiane. La prima è l'indignazione e qui mi piace ricordare una frase molto bella che ha detto una persona durante un incontro che abbiamo fatto a Sulmona: "Non c'è pace senza libertà dall'odio". E la virtù fondamentale che Etty predica in sostituzione dell'odio è proprio l'indignazione. Anche su questo punto ci sarebbero tanti equivoci da chiarire: non odiare non significa diventare apatici o indifferenti, ma indignati, che è molto diverso dall'odiare. Si tratta del punto di arrivo di un cammino che dobbiamo fare; l'odio certamente esiste nell'animo umano, ma possiamo fare un lavoro dentro di noi per trasformarlo in indignazione. Etty non se la prende coi tedeschi, ma con i nazisti come immagino tutti noi avremmo fatto. Non identifica tedesco e nazista; c'è un brano sempre citato nel quale lei sottolinea come sia sufficiente un solo tedesco non nazista per non cadere in questa identificazione totale. C'è anche un sogno molto significativo a riguardo che riporto e commento nel libro.

D: Ti riferisci a quello che si definisce il legittimo diritto all'odio?
R: Certo, contro il male, contro la dittatura. Ma quando lei dice che ciò che odiamo nei nazisti è anche dentro di noi, secondo me sta dicendo qualcosa di molto difficile, che richiede molto coraggio e fa un grosso passo avanti sul piano etico. Io sono sempre partita dalla consapevolezza che non ci sarei mai riuscita, così giovane, avrei fatto esattamente il contrario, mi sarei sentita nel giusto lottando contro i nazisti, avrei sentito che era giusto odiare. La mia generazione, ad esempio, è cresciuta nell'odio di classe.
Uno degli aspetti di Etty poco conosciuti è che sia stata una persona di sinistra, potremmo dire socialista in senso generico e, in una delle primissime pagine del Diario, scrive che non si sente più di aderirvi perché non condivide appunto il concetto di odio di classe. Ciò non vuol dire assolutamente che non ci siano più i problemi sociali, come si tende spesso a equivocare.
Ritorniamo al discorso sulle virtù di cui Etty è portatrice: dopo l'indignazione troviamo la semplicità come ricerca dell'essenzialità sia nella vita sia nello stile. Nel momento in cui ci si avvicina all'essenziale ci dovrebbero essere poche parole per esprimere la verità. Etty ricorre spesso a Rilke, il suo poeta preferito. Nell'edizione integrale c'è una frase di Rilke che cita con frequenza: "Pazienza è tutto".
A me ha sempre colpito come nelle terribili condizioni in cui è costretta a vivere, cerchi sempre di raggiungere questo atteggiamento di pazienza, che non vuol dire assolutamente passività.
Dalla ricerca dell'essenziale si passa poi al bisogno di testimoniare la compassione; di testimoniare - laddove come nel campo di Westerbork, dove non c'è più nemmeno un brandello di umanità - che è ancora possibile un senso umano. Questo discorso così urgente ancora oggi ci porta a fare due considerazioni:una è la possibilità di testimoniare anche in situazioni estreme. Etty cercava di aiutare sia materialmente che psicologicamente e spiritualmente gli altri internati del campo. L'altra è la fiducia nel fatto che anche una sola persona possa lasciare un seme. Personalmente questo è un discorso che sento molto in questi ultimi anni; lo potremmo chiamare il discorso dell'essere minoranza: riuscire a credere che possiamo avere e dare un senso anche se siamo minoranza della minoranza. Vivere questo aspetto spesso ci fa sentire sconfitti, depressi. Etty è un esempio in questa direzione: anche da soli o con l'aiuto di pochissime persone possiamo lasciare un seme. Lei lo fa e sente il bisogno di scrivere per lasciarci una testimonianza. Denuncia che gli altri pensano solo a salvare i propri corpi, l'argenteria, i mobili, che delle persone si distruggono per questo senza capire che tutto ciò non ha senso se non riusciamo a salvare un po' della nostra anima. C'è una frase di Etty che ora viene citata spesso e che ci dà il senso della compassione: "Voler essere il cuore pensante della baracca". È un'espressione molto bella che descrive il suo voler essere la portavoce dei dolori degli altri, unendo cuore e pensiero. E poi c'è il suo bisogno spasmodico di descrivere per lasciare traccia. È come se ci avesse affidato un testimone che noi dobbiamo continuare a portare avanti. Purtroppo il quaderno che ha scritto a Westerbork è andato perduto.

D: Cosa è rimasto dell'opera di Etty?
R: Alcuni quaderni del diario scritti a mano e le lettere. La versione integrale è più del doppio di quella che è stata pubblicata in tutto il mondo. Solo quest'anno la versione integrale sta uscendo in inglese, sebbene fosse pronta ormai da anni.

D: È come se su Etty gravasse una serie di pregiudizi: prima dell'occupazione nazista c'è la vicenda della sua relazione con Spier, con cui era stata in terapia. Si avverte poi la difficoltà ad inquadrarla anche da un punto di vista spirituale perché cita testi religiosi di diverse tradizioni. Che cosa ne pensi?
R: Il fatto che non possa essere etichettata in modo rigido né politicamente né soprattutto spiritualmente è secondo me uno dei motivi che la rende ostica a molti. La rimozione nei suoi confronti è stata enorme: in Olanda i suoi scritti sono usciti solo nel 1981, dopo quarant'anni, un ritardo enorme! Inquieta molto ancora oggi.
Non mi soffermerei tanto sul rapporto con Spier, perché secondo me uno dei motivi psicologici che ha portato a metterla nel dimenticatoio è stato il fatto che ci troviamo davanti a una figura femminile dotata di altissima spiritualità, ma che ha avuto anche una vita sia sentimentale che sessuale intensa. È difficile trovare un'altra figura di donna in cui ci siano tutti e due questi aspetti vissuti così intensamente. E credo che questo piaccia a pochi, anche se bisogna riconoscere che è molto ebraico, che è nell'essenza dell'essere ebreo non rimuovere il corpo. Se è vero che la sua spiritualità è molto aperta, bisogna però sottolineare - e io lo faccio sempre quando la sento snaturata ed etichettata da qualcuno - che lei è ebrea. È come ebrea che finisce a Westerbork e poi ad Auschwitz. Su questo è molto chiara: sente che deve seguire il destino del suo popolo, senza che questo impedisca che sia un esempio altissimo di persona libera, laica, di persona aperta a tutti i testi religiosi in cui si manifesta Dio.

D: Che cosa possiamo dire della spiritualità di Etty Hillesum, di questo suo non essere rinchiusa dentro un'unica esperienza religiosa?
R: Siamo davanti a una spiritualità particolare che secondo me può aiutare molto l'uomo moderno. Anzitutto ci manda un segnale di coraggio e di speranza, la sua è una testimonianza opposta al fondamentalismo e oggi vediamo bene come i fondamentalismi siano presenti in tutti e tre monoteismi. Poi perché sento che Etty ha una spiritualità che riesce a vivere in semplicità ed essenzialità. Descrive così a un'amica cristiana la sua scoperta di Dio: "Spier ha disseppellito Dio in me e io voglio d'ora in poi farlo negli altri uomini". Secondo me è molto difficile per noi oggi tornare a questa essenzialità di fede che Etty manifesta. Un altro punto molto importante è il capovolgimento del rapporto tra Dio e l'uomo nel momento in cui sente che l'uomo è il responsabile di ciò che fa e che, quindi, anche nei confronti di Dio l'uomo è responsabile.
Nel capovolgere il rapporto con Dio e non credendo nella sua onnipotenza, Etty di fatto toglie all'invocazione a Dio quell'aspetto di ricerca di aiuto che nei momenti di disperazione quasi tutti fanno e che, però, spinge anche alla deresponsabilizzazione. Da Jung, che ha letto attraverso Spier, ha mutuato il discorso sulla responsabilità individuale che diviene per lei centrale e che è un concetto di una modernità straordinaria. Tutti tendiamo a non sentirci responsabili in un tempo in cui la guerra sembra essere virtuale: la si vede in TV ed è lontana e vicina allo stesso tempo. Non possiamo incidere su decisioni che prendono altri da noi. E questo, insieme a tanti altri motivi, ci porta a non sentirci responsabili per quello che accade. Etty, invece, è testimone proprio del contrario: noi siamo responsabili di tutto. Abbiamo la responsabilità in senso stretto di quello che facciamo, ma anche per quello che un essere umano altro da noi fa. Non è un concetto certo facile; l'ho ritrovato in maniera molto coinvolgente anche in Levinas.
E questo è un altro motivo che ha reso Etty Hillesum indigesta a molti: a volte poteva risultare insopportabile perfino ai suoi amici ebrei nel campo di Westerbork. Esistono delle testimonianze in questo senso, di come con le sue domande spingesse a pensare, a riflettere, a interrogarsi sul senso di ciò che ciascuno faceva, a salvare non solo il corpo ma anche l'anima e questo per alcuni risultava insopportabile, non ce la facevano. Da una parte c'è l'esaltazione della rimozione pur di salvarsi a tutti i costi e dall'altra la sua testimonianza,così diversa, che arriva ad affermare che siamo responsabili di quello che facciamo anche nei confronti di Dio perché il nazista, con il suo comportamento disumano, uccide Dio nell'uomo. E questo è un altro concetto enorme su cui riflettere.
C'è una pagina molto bella nel diario, dove scrive: "Cercherò di aiutarti affinché tu non venga distrutto dentro di me, ma a priori non posso promettere nulla. Una cosa, però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare te, e in questo modo aiutiamo noi stessi. L'unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l'unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio." (Diario, Adelphi 1985).
Parlando dell'essenzialità della fede di Etty, dobbiamo dire che lei è testimone di una fede libera che non ha bisogno di manifestarsi attraverso la mediazione di una chiesa e dunque diventa essenziale la preghiera. Secondo me c'è come una sorta di censura perché queste cose sembrano troppo semplici, nel senso negativo che ha questa parola nella nostra lingua, ossia banali. Invece Etty rivendica la profondità sia della fede sia della preghiera, nel senso del dialogo continuo che stabilisce con Dio. Ho sempre vissuto delle pagine delle lettere di Etty come una preghiera, una preghiera nuova, intensa, che secondo me anche oggi può dirci moltissimo.

D: Che effetto ha avuto su di te immergerti per così lungo tempo e tanto profondamente nella figura di Etty Hillesum?
R: Mi ha dato moltissimo; innanzitutto facendomi molto meditare su come possiamo comportarci davanti a una situazione estrema e spesso, nella storia di questi anni, ci siamo stati vicini. E questo è un primo aspetto. Poi, ma questo è accaduto negli anni più recenti, mi sono accorta che mi ha fatto diventare molto più sensibile alle manifestazioni di odio. Non parlo di quelle evidenti, storiche, ma mi riferisco proprio alla vita quotidiana, all'incontro con le persone.
Anche in campo religioso, spesso sento, forse in modo amplificato rispetto alla realtà, l'odio verso il vicino, in modo sottile, non parlo delle manifestazioni eclatanti. Sento che mi si è molto acuita questa sensibilità che sento quasi come una fedeltà a ciò che ci dice Etty e cioè che si deve riuscire invece a non odiare. E adesso, con tutti i miei limiti, quando mi trovo davanti a manifestazioni di odio, provo a dire che forse c'è un'altra possibilità.
La terza cosa che ho ricevuto è aver capito che è la speranza che può darci forza nel lanciare questi piccolissimi semi. Quando ero più giovane forse ero molto più ideologizzata e quindi pensavo che avesse senso solo partecipare a certe forme di lotta politica. Anche nel mio lavoro d'analista, in cui si cura una persona alla volta, questo ha un senso profondo perché sebbene sia un lavoro di minoranza sono comunque dei semi che si buttano e che a raggiera faranno bene anche ad altri.

D: Possiamo terminare con una nota di ottimismo: l'interesse intorno al tuo libro uscito nel 1999, il convegno a Roma di quest'anno e numerose altre iniziative, dimostrano una grande attenzione per Etty Hillesum, cosa ne pensi?
R: Credo che lo sforzo che bisogna fare sia quello di non prendere solo un pezzetto della personalità di Etty, quello che ci piace, che è quello che fanno un po' tutti. Etty va capita in tutti i suoi aspetti, che sono tutti autentici e profondi. Allora è pericoloso secondo me farla diventare una santa perché non è una persona che vive solo di spiritualità. Ha mostrato attraverso la sua condotta di vita un modo per resistere al nazismo dando una testimonianza politica, ma che è anche testimonianza di vita e di amore. E di amori, con vari uomini, pieni di contraddizioni e anche di disturbi psicosomatici. Lo ricordo spesso perché questo la rende molto più vicina a noi. Così come l'amore per la lettura e la letteratura, quella russa in particolare. A questo proposito vorrei dire un'ultima cosa sulla spiritualità che mi sembra importante: mi sembra sempre di capirla e poi mi accorgo che mi manca un pezzetto.
Nelle lettere, e anche in alcune pagine del diario racconta, parlando di se stessa e una volta anche del padre, di come per resistere psicologicamente e per non soccombere nel campo di Westerbork, passasse intere giornate a leggere la Bibbia. A una prima lettura questo fatto sembra chiaro, non presenta nessun problema. Invece sento che si tratta di una notazione profonda, che non riesco a penetrare fino in fondo. Ancora oggi, infatti, sento che non saprei aiutarmi con la lettura della Bibbia. Come è possibile che in una situazione così tragica come un campo nazista, la lettura della Bibbia possa essere l'unico autentico sostegno?
Mi sembra di intuire invece quanto sia importante l'uso così totale del Libro e su questo punto ho ancora molto da imparare e meditare.