Passi di pace
in Libia
INCONTRO CON DAVID GERBI
Lo scorso 5 settembre David Gerbi è partito per la Libia, il
paese in cui è nato e che è stato costretto a lasciare oltre trent'anni
fa insieme alla famiglia e a tutta la numerosa comunità ebraica. Da allora
gli avvenimenti politici hanno reso la situazione progressivamente sempre più
difficile e chiusa, anche se oggi si colgono degli elementi di novità.
Nelle diverse serate che abbiamo trascorso insieme prima della partenza, abbiamo
parlato a lungo del senso profondo del suo viaggio e dello spirito di pace che
lo anima. I temi che si intrecciano in questa vicenda sono numerosi, storie
familiari e grandi e tragici avvenimenti mondiali, ma soprattutto il viaggio
della memoria per David è diventato viaggio di speranza e fratellanza.
Ad agosto ho ricevuto le bozze del libro che David ha scritto nell'ultimo anno
e che presto uscirà negli Stati Uniti e da allora, devo dire, non è
passato giorno, nonostante la pigra estate romana, in cui non ci fossero novità
o non si aggiungessero nuove pagine al manoscritto originario. Fino alla richiesta
al colonnello Gheddafi di scrivere proprio lui, in persona, l'introduzione e
un eventuale capitolo dedicato alle sue idee relative alla pace e al dialogo
interreligioso.
Roberto
Mander
D: Mi sembra
importante partire dal momento in cui il primo nucleo di questo progetto ha
iniziato a manifestarsi dentro di te: l'11 settembre 2001. Quando anche tu apprendi
dalla televisione quello che è successo a New York
R: Mi trovavo alla Circonvalla-zione Clodia ed ero appena uscito dal
mio gastroenterologo, mi fermo al bar Cipro e il barista mi dà la notizia.
Alla televisione vedo le prime scene, il fumo che esce delle torri
e improvvisamente
mi torna alla memoria il fumo che usciva dalle case di fronte alla mia. Il pogrom
in Libia del 1967 quando, in seguito alla Guerra dei sei giorni, gli arabi libici
vennero incitati via radio dagli arabi egiziani ad attaccare gli ebrei, ad eliminarli
tutti. Il re libico Idris cercò invano di calmare gli animi, intimando
alla popolazione di tornare nelle proprie case e di non rovinare la reputazione
del paese. A parte alcuni momenti di difficoltà, fino a quel momento
gli arabi avevano convissuto in pace con la comunità ebraica.
D: Tu sei
un ebreo di Libia?
R: Sì, sono nato a Tripoli da una famiglia ebraica libica. Siamo
lì almeno dal 1492, dalla cacciata degli ebrei dalla Spagna. Ma si dice
che eravamo già lì da almeno duemila anni, cioè dai tempi
di Salomone. Si dice anche che una delle pietre del santuario di Salomone sia
stata portata a Gerba, in Tunisia, dove è stata costruita la sinagoga
antichissima della Griba, che vuol dire "La Straniera". Ancora oggi
sono molti quelli che vi si recano in pellegrinaggio. Da noi, in Libia, esiste
la Sla Kbira, il Grande Tempio, anch'esso antichissimo, costruito almeno quattrocento
anni fa. Io vengo da lì.
Nel 1967 l'intera comunità è stata sradicata, ma gli ebrei hanno
lasciato il paese con la speranza e la sicurezza che sarebbero tornati, appena
passato quel brutto momento. In realtà, però, le cose sono andate
diversamente; infatti, dopo breve, in Libia c'è stato un cambiamento
politico e tutta la comunità lentamente ha finito per svuotarsi. In molti
si sono trasferiti a Roma dove si è costituita una nuova comunità
che ha mantenuto le varie tradizioni, dal modo di pregare alla lingua. Così
come la cucina, la cultura, il folclore: tutto è stato mantenuto come
se fossimo ancora a Tripoli o Bengasi. La comunità a Roma ormai ha quattro
sinagoghe, c'è un'associazione di ebrei di Libia, esistono vari comitati
e numerosi libici si sono affermati nei diversi campi della vita della città.
D: Però,
da allora, nessuno di voi è più potuto tornare in Libia?
R: No, a parte una o due persone che sono tornate per motivi commerciali
e che hanno avuto degli agganci di tipo diplomatico. Fino ad ora a nessuno è
stato concesso di tornare. Ma a Tripoli sono rimaste due donne, una delle due
era una lontana parente di mia nonna, Esmeralda Megnagi che è morta alla
fine dello scorso febbraio, mentre l'ultima donna che ancora vive in Libia è
mia zia Rina Debach, che attualmente è ospitata in una casa di riposo
di Tripoli.
D: Per chi
era nato in Libia il dover lasciare il proprio paese è stato un taglio
netto. Inoltre tutte le proprietà sono state confiscate. Insomma, un
passato completamente cancellato.
R: Sì, le proprietà sono state confiscate e solo per alcuni
c'è stata la possibilità di vendere. Oggi la situazione è
ancora questa, il cimitero ebraico non è stato ancora restaurato e anzi
ci hanno costruito sopra un'autostrada. So che la sinagoga invece è stata
restaurata ed è tutelata come bene culturale.
So anche che la Libia si sta aprendo con il cambiamento del colonnello Gheddafi
e sembra mostrare delle nuove disponibilità per il futuro.
D: È
abbastanza straordinario che, proprio nel momento in cui tutto il mondo invoca
odio e vendette, in te sia emerso invece il desiderio di tornare nella terra
dei tuoi padri, come ambasciatore di pace, mi viene da dire.
R: Considero Tripoli la mia terra natia, non ho mai smesso durante i
trentacinque anni che ho trascorso in Italia di pensare ogni giorno alla città
in cui sono nato, ai suoi odori, ai suoi sapori
anche perché in
casa ho sempre sentito mia madre parlare un misto di arabo e italiano, mia nonna
in arabo e abbiamo sempre mangiato quel tipo di cucina, spesso con sottofondo
di musica araba. La cultura, la tradizione è rimasta quella, benché
io sia stato educato in Italia e sia italiano di adozione. Sono cittadino italiano,
ma ho visitato e sono vissuto in Israele, ho visitato e sono vissuto in America.
La mia radice rimane là, in Libia, e sento che mi manca.
È come togliere una palma che vive nel deserto e metterla improvvisamente
in alta montagna. Si troverà bene, si abituerà, però la
sua vera natura, il suo clima, il suo ambiente rimarrà sempre quello
di origine.
Al di là dei cambiamenti politici, ho sempre amato quella gente, quei
suoni, quella musica, quegli odori, quelle usanze, quel modo di essere. Adesso,
purtroppo, c'è la tendenza a generalizzare, a vedere tutto bianco o nero,
ma io non vivo l'arabo come totalmente cattivo, così come viene troppo
spesso descritto. Ho avuto la fortuna di avere avuto moltissimi incontri, che
descrivo anche nel libro, con arabi, che invece hanno aiutato gli ebrei, che
hanno reso fertile lo scambio. Per cui la diversità è stata una
fonte di ricchezza, è stata vissuta come un valore e non come un impedimento
alla relazione. La diversità vissuta non più come un muro che
distanzia le due parti, ma come un luogo di scambio. Questo era quello che c'era:
Tripoli deriva da tri-polis, tre parti, è sempre stata considerato un
centro importantissimo nel Mediterraneo da cui passavano moltissimi scambi.
Purtroppo in seguito a ciò che è successo tutto questo si è
interrotto. Ma ho la speranza e anche la voglia e la volontà di riprendere
ciò che è stato interrotto trentacinque anni fa. Lo avverto come
l'impossibile che diventa realtà.
D: E qui
è il tuo cammino di costruttore di pace, per riprendere il titolo del
tuo libro che sta per uscire negli Stati Uniti, e speriamo presto anche in Italia.
Quali sono stati i passi che hanno portato alla tua ormai imminente partenza
per La Libia?
R: Il titolo del libro è Costruttori di pace (Peace builders);
perché è vero che è nato dalla mia storia, ma devo riconoscere
che questo libro oggi non è più soltanto il mio libro. Ho avuto
la fortuna di incontrare parecchia gente durante questo mio cammino e ognuno
in qualche modo, dopo aver ascoltato la mia storia il mio progetto, è
stato in grado di offrirmi una parte di se stesso come costruttore di pace.
Nel libro non ho potuto elencare tutti i loro nomi, a parte le personalità
più autorevoli che sono state invitate a partecipare attraverso un contributo.
Tutti hanno contribuito alla speranza e al concreto ottimismo, in modo da poter
costruire un futuro dove possa esserci dialogo.
Questa storia nasce nel 1988 quando inizio a riprendere in mano i miei diari
che avevo accumulato nel corso degli anni e decido di volerli mettere tutti
insieme. Una mia carissima amica invece mi invita a farne un libro di memorie.
Metto insieme tutto il materiale e poi, nel 1993, in seguito al trattato di
pace tra Rabin e Arafat decido che il mio libro ormai non serviva più
e quindi lo lascio perdere. Poi, come ho detto prima, riprendo in mano il manoscritto
l'11 settembre perché ne avverto l'utilità. E ancora di più
nei mesi successivi quando vedo la situazione in medio oriente degenerare sempre:
più tra kamikaze e ritorsioni, tra impossibilità di negoziato
e terrorismo. A questo punto ho sentito che non volevo lasciarmi inglobare da
una visione pessimistica della realtà, ma volevo cercare di dare almeno
il mio contributo portando il mio semino di pace, così come è
detto nelle massime dei Padri: "Non sta a te concludere l'opera, ma nemmeno
esimerti dall'iniziarla". Il mio motto è stato quello che mi è
stato insegnato dai miei maestri: "Chi è l'uomo potente? Colui che
trasforma un nemico in amico".
D: Il libro
in qualche modo diventa dunque il terreno fertile da cui nascono una serie di
incontri, ma da cui soprattutto prende corpo l'ipotesi concreta di tornare fisicamente
il Libia.
R: Dopo aver passato un periodo di ritiro in un centro in California,
ho deciso di interrompere la mia attività di analista dedicando meno
tempo al lavoro con i pazienti, prendendo sempre meno pazienti e informando
che avrei concluso il mio lavoro con loro. Per sei mesi, da dicembre a maggio
con un'interruzione di un mese, ho ripreso in mano tutto il materiale del manoscritto.
Sono andato a Growing Edge un centro a Big Sur, in California, un posto proprio
davanti all'oceano, in mezzo alla natura, tra le rocce e le onde, in mezzo alla
natura selvaggia. Accanto sorge l'Esalen Institute, un centro dove si svolgono
attività di tipo psicologico, meditativo e di sviluppo del potenziale
umane e della capacità di relazione. Ho dedicato quel periodo alla rielaborazione
del testo. E lì ho avuto incontri importantissimi che mi hanno permesso
di scoprire che in realtà ciò che volevo era tornare nel mio paese.
Ho pensato che il modo migliore per farlo potesse essere attraverso la pubblicazione
di un libro e il coinvolgimento di personalità importanti e autorevoli
che avrebbero favorito la cura della nevrosi dell'esilio, la nevrosi del profugo,
la ferita del profugo. Infatti il titolo originario era:The wound of refugee.
Poi con il tempo mi sono reso conto che questo titolo era legato più
a un discorso che riguardava il passato, il mio ruolo di vittima. Invece il
nuovo titolo: "I costruttori di pace" (Peace builders), mi è
sembrato che enfatizzasse più il fatto di avere un progetto.
Sono passato da un discorso di sfogo legato alla memoria a un progetto legato
al futuro. E questo mi ha dato molta energia. Ho visto negli occhi delle persone
che mi hanno ascoltato che erano sì interessate a conoscere quello che
era successo, ma che lo erano ancora di più a vedere quello che sarebbe
potuto succedere.
Così il 29 maggio scorso sono tornato a Roma con il sommario del libro
e con l'intenzione di terminarlo, senza assolutamente prevedere che il miracolo
sarebbe accaduto nel giro di soli tre mesi. Ancora una volta ho incontrato moltissime
persone che mi hanno aiutato alla realizzazione di questo progetto. Tutto è
nato una domenica in cui mio zio va a trovare mia madre la quale gli chiede
come fare per avere un certificato di nascita che le sarebbe servito per ritirare
la carta di identità. L'anagrafe, infatti, non le rilasciava la carta
di identità senza quel certificato che si trovava a Tripoli dove, però,
l'anagrafe era andata distrutta. Mio zio del tutto casualmente era venuto a
sapere che una legge appena uscita attribuiva la possibilità al consolato
italiano in Libia di rilasciare dei certificati sostitutivi. A questo punto
si dà molto da fare e si mette in contatto con il consolato italiano
a Tripoli. Parlando per telefono con l'archivista viene a sapere che esiste
un'altra persona con lo stesso cognome che è ricoverata in una casa di
riposo. Chiede se si tratta di una parente e viene a scoprire che si tratta
di una nostra zia che tutti pensavamo fosse morta. A mia volta apprendo questa
storia abbastanza casualmente, al matrimonio del figlio di mio zio Sion, e così
vengo a sapere che questa parente è ancora viva. Chiamo subito il consolato
italiano per avere maggiori informazioni e mi dicono che mia zia ha una nevrosi
cronica conseguente alla frattura dei legami familiari durata ben trentacinque
anni e che adesso si sente ancora più sola perché l'unica altra
donna ebrea che viveva a Tripoli è morta di recente. Ogni giorno l'andava
a trovare, come mi racconta anche il console che la vedeva passare, e ora è
rimasta completamente sola. Così è finita ricoverata in un centro
dove è trattata benissimo da tutti i punti di vista, ma si trova completamente
sola.
A questo punto mi è scattata la voglia di tornare non solo per il desiderio
di rivedere la mia terra, la mia casa, il negozio di mio padre, il cimitero,
la sinagoga, i luoghi della mia infanzia, ma anche per visitare mia zia, sia
come parente che come psicologo, avendo lavorato in passato in una casa di riposo
per anziani.
In quest'ultima fase ho avuto la fortuna di incontrare la sig.ra Andreina Fontana,
dell'Ambasciata Italiana di Tripoli, che mi ha molto aiutato nel mio progetto.
Ho parlato anche con lei del mio libro. Attraverso gli incontri con tanti altri
costruttori di pace, che lavorano veramente per la pace, tutti i vari pezzi
si sono messi insieme come in un puzzle. E così mi è venuto il
desiderio non solo di aiutare mia zia, ma anche di proporre al colonnello Gheddafi
di scrivere lui l'introduzione del mio libro, dandogli così modo di far
conoscere oggi il suo pensiero sulla pace nel mondo e sul dialogo tra le religioni.
D: La cosa
che mi ha molto colpito domenica scorsa, quando abbiamo guardato insieme in
TV il primo tempo della partita Juventus-Parma, che si giocava a Tripoli, sono
state le tue parole quando la telecamera inquadrava il pubblico dello stadio.
La tua reazione mi ha sorpreso: quella massa di gente poteva essere la stessa
che aveva dato vita al pogrom del 1967 in Libia. Loro, o i loro padri, erano
quella massa inferocita che voleva uccidere gli ebrei. Ma tu, invece, non hai
visto nulla di tutto questo?
R: Nell'osservare le facce della gente, ho visto nelle loro espressioni
una parte di me, mi sono riconosciuto in quegli occhi. Ho riconosciuto facce
che conosco da bambino. Soltanto come se tutto si fosse trasformato, riazzerato:
l'ultima immagine che io avevo dei libici era quella del pogrom, quando li vedevo
urlare contro gli ebrei. Un'immagine terrorizzante. Invece vedere là
allo stadio quei libici tranquilli, che facevano il tifo come chiunque altro,
in mezzo alle pubblicità della Tim, o Adidas, eccitati per la partita,
mi ha fatto il dono di poter tornare a una sorta di normalità. Non erano
più la massa popolare che aggrediva per commettere violenza, ma una massa
che tifava con gioia per una squadra di calcio. Quando poi siamo usciti, tu
mi hai parlato di come le cose cambiano, di come forse anche quella partita
poteva essere un momento di cambiamento, proprio come la partita di ping pong
dopo la quale Cina e Stati Uniti riallacciarono le relazioni.
Sento che dentro di me si è trasformato qualcosa di profondo; anche ultimamente,
quando sono stato al consolato e ho parlato a lungo con il console, mi sono
commosso per come anche lui parlava di pace e di fratellanza, quando ha detto
che veniamo tutti dallo stesso nonno Abramo. Sono le cose che anch'io ho sempre
detto, ma sentirle dire da lui mi ha toccato in modo particolare perché
vi ho visto la possibilità del dialogo. Già nel suono della sua
voce ho sentito un senso di vicinanza,. La sua disponibilità mi ha dato
molta speranza. Uscire dal consolato libico di Roma e sorridere ai libici e
ricevere il loro sorriso è stato come se non solo fosse svanito il terrore,
ma mi fosse tornato il sorriso.