La necessità
del dialogo
di Louise Steinman
LA CONFERENZA INTERNAZIONALE
BIENNALE DI ONE BY ONE (BERLINO, 17 - 21 GIUGNO, 2002)
Il venti gennaio del 1942, in un'elegante villa sulle rive del lago di Berlino,
il Wannsee, si riunì un gruppo scelto di nazisti sotto la presidenza
di Reinhard Heydrich, capo del dipartimento di sicurezza del Reich e il suo
"esperto di ebrei" Adolf Eichmann, per discutere l'attuazione della
cosiddetta "soluzione finale della questione ebraica". Sessant'anni
dopo, in un'altra villa di Wannsee, ha luogo una riunione ben differente, che
una di quelle menti criminali non avrebbe mai osato immaginare.
Benvenuti all'annuale incontro di One by One, un gruppo di persone che si dedicano
a esplorare il lascito dell'olocausto e del regime nazista. Scopo di One by
One è di promuovere il dialogo tra "discendenti di sopravvissuti,
di carnefici, spettatori e oppositori."
Tra i circa cinquanta di noi qui presenti al Wannsee Forum (una villa espropriata
dopo la guerra dagli americani a un simpatizzante nazista) ci sono una nipote
di un oppositore tedesco; un sopravvissuto di Theresienstadt; il nipote di un
comandante delle SS in Francia; una donna il cui padre ebreo di nascita è
stato ucciso ad Aushwitz; un ex membro della gioventù hitleriana; una
donna tedesca la cui madre faceva parte delle SS a Varsavia; un'anziana sopravvissuta
polacca di Ravensbruck; una donna olandese i cui genitori ebrei l'hanno data,
all'età di nove mesi, in custodia a buoni cristiani, prima di venir deportati
e uccisi. Veniamo da Berlino, Los Angeles, Varsavia e Brooklyn, Roma, San Diego,
Amsterdam, Città del Capo e Monaco. Questo è un gruppo di persone
designato, per molte ragioni, ad affrontare il pesante lascito di un passato
traumatico, che si dedica a rompere quello che i membri di One by One chiamano
"la cospirazione del silenzio".
Il silenzio non prende posizione. Bettina, 37 anni, cresciuta a Berlino Est,
ha patito il trauma del silenzio trasmessole dal nonno, un antifascista tedesco,
che aveva lavorato come corriere per la Resistenza. Tradito, passò due
anni a Buchenwald. Dopo la guerra, il governo della GDR non lo ritenne sufficientemente
entusiasta nei riguardi del comunismo e lo rinchiuse per cinque anni in un campo
di lavoro. Un uomo amareggiato, spezzato, che divenne violento con la famiglia.
Sarah, cresciuta a Manhattan, solo a tredici anni venne a sapere che entrambi
i suoi genitori erano sopravvissuti di un campo di concentramento: "È
stato come atterrare sulla luna tutta sola, uscendo da una scatola di uova."
Roza è cresciuta ad Amsterdam con i genitori adottivi che non sapevano
dirle niente sulla storia della sua famiglia. "Ero sempre alla ricerca,
ma non sapevo di cosa. Non avevo storia."
Cosa ha portato me, un'ebrea americana di Los Angeles, a Wannsee? Mia madre,
figlia di immigrati ebrei polacchi, riusciva a malapena a pronunciare la parola
'Polonia', tanto profonda era la sua sofferenza nei riguardi dei polacchi e
il suo cordoglio per la perdita. Se non altro, la mia antipatia verso i polacchi
vinse il disagio e la rabbia verso i tedeschi. Tuttavia, non avevo mai incontrato
un polacco, né conoscevo granché della storia polacca. Nell'autunno
del 2000, su consiglio del rabbino Don Singer ho partecipato per una settimana
al ritiro "portare testimonianza ad Auschwitz-Birkenau", organizzato
dallo Zen Peacemaker Order. Arrivai scettica a Birkenau. Me ne andai confusa
e ispirata dal dialogo tra gruppi interreligiosi e internazionali. Più
precisamente, ho scoperto il carico dei miei non verificati pregiudizi.
Rabbi Singer si è a lungo interessato della riconciliazione polacchi-ebrei,
un concetto che allora non riuscivo a capire. Dopo tutto, nessun ebreo era sopravvissuto
in Polonia! Tre milioni di ebrei polacchi sono stati cancellati dalla faccia
della terra. "Quando andai in Polonia per la prima volta e incontrai alcuni
polacchi, - mi ha raccontato il rabbino - trovai che avevano una falsa fama.
Sentii che li conoscevamo e li comprendevamo."
Una falsa fama? Non è risaputo che i polacchi fossero antisemiti anche
peggio dei tedeschi? Ci deve essere una ragione se i nazisti collocarono in
Polonia i loro campi di sterminio. Il mio bisnonno materno era il Grande Rabbino
di Radamsk, in Polonia. Oltre diecimila ebrei di Radamsk, tra cui parenti innominati,
furono uccisi nella Shoah. La famiglia di mia madre veniva da Czestochowa, centro
del culto della Madonna nera del cattolicesimo polacco. Anche dopo la guerra,
i polacchi continuarono a uccidere gli ebrei. L'infamante pogrom, nella città
polacca di Kieloe, nel giugno del 1946, convinse gli ebrei polacchi sopravvissuti
alla guerra a scappare dal paese.
Non sapevo quasi niente del lato polacco della mia famiglia. La Polonia era
la pagina vuota della mia storia ancestrale. Proprio prima di partire per Birkenau,
venni a conoscenza, per cortese concessione di Google, dell'esistenza di un
Memorandum (Yizkor) di Radomsk, un resoconto compilato dai sopravvisuti della
Shoah sulla comuità ebraica di Radomsk.
Nel Memorandum, ho scoperto una comunità vivace in cui sionisti e buddhisti,
hassidim e bolscevichi, artisti e poeti, ebrei e polacchi vivevano le loro vite
gomito a gomito. Ci sono resoconti di polacchi che durante la guerra recarono
danno agli ebrei, ma ci sono anche racconti di quelli che li aiutarono. Come
ha scritto Eva Hoffmann: "Nell'impossibile calcolo di quel tempo, ci voleva
un gruppo di persone per salvare la vita di un solo ebreo e una sola persona
per causare la morte di molti ebrei." Sono stata profondamente toccata
dal monito centrale del Memorandum: "Per favore, discendenti di Radomsk,
dovunque siate nel mondo, parlate ai vostri figli e ai nipoti della nostra città
e della sua gente."
L'ultima notte a Birkenau, si è svolto un polemico incontro di tutti
i 120 partecipanti in una delle baracche. Gli animi si infiammavano, il sangue
si faceva caldo. Qual era la versione corretta della storia? È stato
un momento meraviglioso, perché le discussioni appassionate ci incoraggiano
a riflettere. Eravamo all'inizio di una discussione collettiva su storia e memoria,
un'esperienza rara tra persone di culture e fedi diverse. Volevo continuare
quello che avevamo appena iniziato. È questo che mi ha portato a questo
convegno di Wannsee.
Tra le varie possibilità in programma al convegno, mi sono sentita più
attratta a partecipare a un illuminante workshop sul dialogo tra tedeschi, polacchi
ed ebrei, con lo scopo di incoraggiare un dialogo più esteso per l'anno
prossimo in Polonia.
Margot, leader del workshop, aveva programmato questa riunione per anni. Sua
madre era stata nelle SS a Varsavia ed era un suo antico desiderio creare un
dialogo tra tedeschi, ebrei e polacchi. Ora, se nutrite un giudizio superficiale
nei suoi confronti, permettetemi di darvi dei dettagli il più spogli
possibile della sua storia. La madre SS di Margot rivolse la ritorsione della
sua rabbia sulla figlia, cercando di fatto di ucciderla. Tormentava la figlia
dicendole: "Se tu avessi vissuto ai tempi di Hitler, ti avrebbe ucciso
col gas come gli ebrei." Margot scappò di casa a 14 anni.
Con una lunga e buona terapia e l'aiuto di One by One ha creato una vita eccellente
per se stessa e per sua figlia. Se ci fosse una finestra rotta alla sinagoga
del suo ghiaioso quartiere di Kreutzberg a Berlino Est, potresti contare su
Margot per fare la guardia durante la notte gomito a gomito con amici che la
pensano come lei. Lei è un mensch. (1)
Abbiamo fatto un giro in cui ognuno diceva brevemente perché era lì.
Sarah confessò di aver deciso di partecipare al workshop solo due minuti
prima del suo inizio. In profondo conflitto, aveva telefonato a un'amica fidata
in Colorado, un'altra figlia di sopravvissuti, per chiederle: "Siamo polacchi?".
"Perché? Chi vuole saperlo?" rispose l'amica. E poi, "Beh,
sì. Siamo di origine polacca. I nostri antenati hanno vissuto lì
per secoli. Mangiamo ancora così."
Dunque Sarah era lì con noi, ma estremamente a disagio. "Entrambi
i miei genitori erano polacchi. La Polonia è dove tutto era andato distrutto.
La famiglia di mio padre possedeva il Grand Hotel di una piccola città.
Dopo la guerra, quando ritornò alla sua città, alla sua casa,
gli amici della sua infanzia gli sparararono. La mia domanda è: "I
polacchi vogliono che facciamo ritorno?".
Tocca ora a Zofia. Ho incontrato Zofia due anni fa al ritiro di Auschwitz. 86
anni, corriere della resistenza polacca, ora celebre scultrice in Polonia, smentisce
il suo aspetto fragile. Zofia è bella, solida e serena. Dorota, sua giovane
compatriota, traduce: "Da Ravensbruck, dove sono stata rinchiusa per cinque
anni siamo stati portati via alla fine della guerra con una marcia forzata nella
neve. Accanto a noi, in fuga dai sovietici, marciava l'esercito tedesco. Dal
cielo, venivamo bombardati dagli aerei alleati. Soldati e prigionieri bombardati
insieme. Guardai le facce dei soldati e scorsi la profondità della loro
sofferenza, loro che avevano distrutto la mia vita e il mio paese. Mi sono detta
che questo è il destino di tutta l'umanità spedita in guerra da
leader fanatici. Ho pensato che la sofferenza ci aveva reso uguali. So che il
dialogo è una necessità. Proprio per questo è la nostra
unica possibilità di salvarci."
Margot mette sul tavolo una pila di schede e ci chiede di scrivere in poche
frasi le emozioni, gli argomenti storici, i fatti che ci piacerebbe mettere
in futuro all'ordine del giorno. Incomincio subito a scarabocchiare. Voglio
parlare del pogrom di Kieloe. Voglio parlare del soccorritore polacco Jan Karaski.
Del ripristino di cimiteri e monumenti ebraici. Della disperazione e dell'entusiasmo
che ho sentito partecipando a questo dialogo. In una delle schede Dorota ha
scritto: "La compassione è una torta molto piccola", la sua
metafora per il modo in cui polacchi ed ebrei competono per il riconoscimento
della loro sofferenza. Abbiamo passato ore a riempire le schede. Poco prima
dell'intervallo per la cena, Sarah lascia la stanza, sommersa dall'emozione.
La ritrovo più tardi, alla fine dello spossante incontro, dopo che centinaia
di schede sono state attaccate alle lavagne mobili di Margot. Abbiamo entrambe
bisogno di bere qualcosa, e ci dirigiamo in città per distenderci e ragguagliarci.
Quando a mezzzanotte torniamo alla villa, il portone è chiuso. Prendiamo
in considerazione l'idea di tirare sassolini alla finestra di qualcuno. Sulla
terrazza del retro scoviamo Dorota e la sua amica, pure polacca, Magda, che
fumano al buio. Le raggiungiamo. All'inizio, c'è un silenzio di disagio.
Poi, Dorota chiede timidamente: "Sarah, perché non sei tornata al
workshop dopo cena?" La domanda coglie Sarah di sorpresa. "Perché
me lo chiedi? Hai notato che non c'ero?" "Sì, - risponde Dorota
- mi sei mancata." Pausa. "Mi sono sentita così felice quando
hai detto che eri polacca."
Chiedo a Dorota: "Tu sei nata dopo la guerra. Cosa si prova a crescere
in una Polonia senza più ebrei?".
"Ne avverti l'assenza, - risponde dolcemente - è come far parte
di una stoffa in cui vi è un grande buco che la squarcia nel mezzo."
Ci parla della sua famiglia finita in carcere per aver dato rifugio agli ebrei
durante la guerra; delle scomparse e del carcere nell'epoca staliniana. Ricordate,
sedevamo al buio. Vedevamo solo le nostre silhouette. Ci sentivamo così
più a nostro agio. La luce della luna brillava sul lago Wannsee. Parlammo
a lungo nella notte. Era la mia prima conversazione intima con polacchi della
mia generazione, la prima di molte, spero. È così che impareremo
le nostre reciproche storie, riscopriremo la nostra storia intrecciata. One
by one: a uno a uno.
"Deve essere in lacrime il mondo intero, per scoprire che siamo uno?" (Anonimo).
(1) Mensch in yiddish (e anche in tedesco) indica un essere umano rispettabile. Qui è usato nel senso di una persona che sommessamente fa un lavoro straordinario per il bene di tutti. Nella tradizione chassidica si parla di 36 Giusti che salvano il mondo attraverso le loro azioni.
Traduzione
di Chandravimala Candiani