La bandiera restituita

INTERVISTA CON LOUISE STEINMAN, AUTRICE DEL LIBRO THE SOUVENIR


D: Come è nata l'idea di scrivere questo libro?
R: Mio padre non parlava mai della guerra; sapevo che aveva combattuto ma solo dopo la sua morte nel 1990, quando ho trovato più di 400 lettere che aveva scritto a mia madre dalla guerra, ho veramente conosciuto mio padre. Tutte le sue paure e tutto il suo amore si rivelavano in quelle lettere ed anche le sue preoccupazioni. Era molto poetico e non era per nulla il padre che avevo conosciuto io. Tra le lettere ho trovato anche un souvenir della guerra: i soldati americani usavano conservare ricordi di questo tipo. Io ho trovato una bandiera giapponese presa dopo una battaglia con sopra scritto qualcosa. Ero molta curiosa

D: È a questo punto che è iniziata la tua ricerca per sapere cosa era successo?
R: Sì, ho letto tutte le lettere e ho cominciato a trascriverle nel mio computer. Si potrebbe dire che ho cominciato a sentire la voce di mio padre e poi alla fine ho fatto tradurre da un amico giapponese le scritte sulla bandiera perché mi rendevo conto che potevano significare qualcosa. C'era scritto: "A Yoshi Hiroshi nella grande guerra del Pacifico. Se persevererai, vedrai la vittoria". Mi chiedevo chi fosse Yoshi Hiroshi. Alla fine scoprii, non senza molta fatica, che era un giovane che era stato ucciso nella battaglia in cui aveva combattuto anche mio padre.

D: Tu non avevi saputo nulla della guerra fino a quel momento?
R: Sì, era una cosa di cui non si poteva parlare. A casa c'era un clima tollerante e ci era permesso parlare di tutto, ma questo argomento era tabù. A mio padre non piaceva parlare della guerra, lo faceva star male e così non se ne parlava.

D: Non avevi conosciuto dei suoi amici di quel periodo?
R: No, per quanto ne so io non sembra che avesse mantenuto alcun rapporto con gli ex commilitoni e quindi attraverso le lettere per me è stato anche scoprire i suoi amici.

D: E poi hai deciso di andare in Giappone?
R: Sì, ma prima volevo rintracciare la famiglia del giovane soldato e dunque mi sono messa in contatto con un apposito ufficio del governo giapponese. Ci sono voluti diversi anni prima di rintracciare la famiglia. Poi c'era da sapere se la famiglia fosse disposta a incontrarmi.
Nel frattempo ho conosciuto molti veterani della guerra che mi consideravano molto ingenua e un po' stupida. Ma per me sono stati comunque molto utili. Mi chiedevano come mai volessi restituire la bandiera ai giapponesi che avevano fatto cose tanto orribili. Per me aveva un significato: la bandiera non mi apparteneva e sapevo per certo che mio padre in seguito si era molto pentito per averla spedita negli Stati Uniti. In più di cinque lettere dice quanto gli dispiaccia ciò che ha fatto e che non avrebbe mai potuto scusarsi abbastanza per quel suo gesto. Non gli piacevano coloro che conservavano souvenir della guerra, quella che era la cosa più stupida che avesse mai fatto. La cosa lo turbava. E l'ha tenuta, non l'ha buttata via.

D: E quando finalmente hai preso contatto con la famiglia, che cosa è successo?
R: Non c'è stato un contatto diretto da parte del governo giapponese, ma nel 1995 io e mio marito abbiamo intrapreso il viaggio e alla fine siamo scesi dall'autobus in un piccolo villaggio nel nord del Giappone dove si coltivava riso. Non c'era nemmeno un albergo, ma quando siamo arrivati abbiamo visto tanta gente che sventolava bandiere giapponesi e americane. Ho chiesto se ci fosse una festa e mi è stato risposto che ero io il motivo del festeggiamento. È stato un incontro ricco di tante emozioni: non era solo la famiglia a ricevere la bandiera che avevo portato con me, ma l'intero paese. C'è stata anche una cerimonia molto formale. Per mio marito è stato più difficile che per me: lui era già bambino durante la guerra e i suoi sentimenti nei confronti dei giapponesi erano molto complicati.
Ho incontrato la famiglia di Yoshi Hiroshi e anche i suoi amici di infanzia che avevano scritto i propri nomi sulla bandiera. Una cugina ci ha raccontato che la famiglia aveva ricevuto solo una scatola piena di sabbia. Il governo, infatti, era solito inviare ai parenti dei soldati caduti una scatola con dentro della sabbia o dei pezzetti di legno, dicendo che era tutto quello che rimaneva del loro caro. Era partito per la guerra a 19 anni e a 21 era morto.

D: Deve essere stata una sensazione molto strana quella di trovarsi al centro di quella cerimonia, pensando a tuo padre che aveva combattuto proprio contro di loro?
R: Sì, e poi non sapevo assolutamente come mio padre avesse avuto quella bandiera. Non potevo essere certa che non fosse stato proprio mio padre a uccidere il loro figlio, o zio o cugino. E loro sapevano che io non potevo saperlo. Ma mi hanno accettata e io ho accettato loro. Erano persone molto belle. Mi sembravano familiari anche se non potevamo parlare direttamente e bisognava sempre ricorrere a un interprete.
Tre anni dopo sono ritornata e sono rimasta una settimana durante la quale ho potuto intervistare molte persone che erano vissute durante la guerra e che avevano combattuto. Si ricordavano di Hiroshima, erano stati in Manciuria, e in questo modo ho potuto avere un quadro di come i giapponesi avessero vissuto durante la guerra.

D: Forse sei stata la prima a fare questo tipo di ricerca?
R: So di altri che hanno voluto riportare indietro questo tipo di souvenir, ma forse questa è stata la prima volta che qualcuno ha voluto ascoltare veramente l'altra parte. Nemmeno i giovani che vivono nel villaggio vogliono sapere più nulla della guerra, pensano che i più anziani siano stati stupidi a combattere. E dunque tutte le persone che intervistavo si meravigliavano nel sentire che ero venuta così da lontano per chiedere come era stata per loro la guerra.

D: Posso chiederti come è adesso il ricordo di tuo padre dopo che hai pubblicato il libro?
R: Sento di conoscerlo molto, molto meglio. Per anni ho lavorato in teatro come attrice e mio padre, che era farmacista ed era una persona molto pratica, voleva, invece, che facessi qualcosa di diverso per guadagnarmi da vivere. Non mi comprendeva proprio. Ci volevamo molto bene, ma non ci siamo capiti. Scrivendo il libro ho sentito che era una sorta di collaborazione con lui, ho continuato un dialogo. Le sue parole erano parte della storia. Ed è stato anche un regalo per tutta la famiglia, perché nemmeno gli altri sapevano tutte queste cose di nostro padre.

A cura di Roberto Mander