La nonviolenza
nella psicologia e nel pensiero ebraico
di Miriam Harel
"E io ero ansioso di vedere il volto di Satana, creatore di Auschwitz, ma invece ho visto improvvisamente la mia faccia, sovrapposta al frenetico groviglio di serpenti e sul capo portavo un berretto da SS "
da: Shiviti di Ka-tzetnik 135633
In quest'ultima relazione ci occuperemo della violenza nell'uomo e della sua
complessa relazione con il nemico. L'ebraismo riconosce tutto questo e ci insegna
come affrontarlo. In tutte le scritture, dalla triste storia di Caino e Abele
o dalle gesta di David e Golia, leggiamo come l'uomo affronta il nemico che
è dentro di sé. In seguito, negli insegnamenti etici del Talmud,
i rabbini discussero tra loro per trovare un messaggio migliore dell' "occhio
per occhio e dente per dente". L'uomo, invece della vendetta, doveva trovare
un modo per fare tikkun, ossia per riparare, guarire. Gli scritti kabbalistici
e chassidici sono pieni della lotta tra yetzer hara e yetzer hatov - la kabbala
parla di sitra ahra, l'altro lato dove l'uomo deve affrontare le forze demoniache
dentro di sé, per estrarre il bene dai vasi rotti, la luce che emana
dai cocci. Tutti siamo vasi rotti e, come disse rabbi Menahem Mendel: "Un
cuore spezzato è un cuore intero".
Il tema dell'anima divisa è anche uno dei principali soggetti della psicologia
e sarebbe difficile non parlare di quegli psicologi che hanno cercato di fare
chiarezza e guarire. Voglio subito dire che la psicologia non ha tutte le risposte.
Anzi, in quest'epoca post moderna, decostruzionista, non dovrebbero esserci
risposte. Ci sono comunque degli elementi importanti che possiamo apprendere
dai grandi autori della psicologia, dei nuovi punti di vista che possono fare
luce sulla questione cruciale della violenza e del nemico.
Chi è il nemico?
Quando si parla di nemico si pensa a un pericolo che viene da fuori, qualcosa
da cui dobbiamo difenderci. Scopo del nemico è di ucciderci e dunque
deve essere tenuto lontano. Nel nostro linguaggio definiamo questa figura come
qualcosa di totalmente cattivo. Non stiamo parlando dell'uomo che sta dall'altra
parte e con cui siamo in conflitto. Forse anche il nemico ci ha definiti con
questo termine e noi di contro usiamo la stessa definizione. La nostra reazione
nei suoi confronti, la percezione che ne abbiamo, ne definisce l'essenza. Non
siamo soggetti passivi. Siamo esseri umani attivi, pensanti, che definiscono
e che proiettano.
Shmuel Ehrlich, nel suo articolo "Un discorso con il mio nemico",
scrive che l'incontro con il proprio nemico è la combinazione di processi
interiori emotivi e di incontri interpersonali, ossia è vissuto sia soggettivamente
dall'interno che oggettivamente dall'esterno. Un'esperienza a questo livello
può essere molto intensa. I confini tra me e l'altro possono diventare
molto confusi e in questo modo diviene possibile proiettare i sentimenti negativi
che si hanno nei propri confronti sull'altro, dal momento che tutti noi andiamo
in giro portando un grosso carico di violenza e aggressività.
Vorrei citare Jung che in "Psicologia e religione"scrive: "È
incredibile il cambiamento di carattere che si verifica nel momento in cui intervengono
forze collettive. Un essere gentile e ragionevole può trasformarsi in
un pazzo furioso o in una bestia feroce. Siamo sempre portati ad attribuire
la responsabilità a circostanze esterne, ma nulla potrebbe esplodere
in noi, se non vi esistesse già. In realtà noi viviamo in continuazione
sopra un vulcano e a quel che sappiamo non è umanamente possibile difendersi
contro un'eventuale eruzione
Il pazzo quanto la folla sono mossi da forze
impersonali più forti di loro
e non si può tener testa con
i mezzi della ragione".
Agli albori della storia la coscienza sicuramente deve essere stata qualcosa
di molto precario. Vediamo con quale rapidità si possa perderla; la perdita
dell'anima, quando la psiche ridiventa inconscia, è uno dei pericoli
maggiori. In una condizione in cui i confini dell'ego risultano indeboliti,
si può arrivare a livello inconscio a identificarsi totalmente con il
nemico, oppure con la persona amata. Nel processo di divisione e proiezione,
siamo totalmente coinvolti nell'amore o nell'odio nei confronti di colui con
cui ci siamo identificati.
Ogden e Fairburn, così come Melanie Klein e gli altri appartenenti alla
scuola delle relazioni oggettuali, sostengono che l'altra persona diventa una
parte esternalizzata di noi stessi, ed esattamente la parte scissa e cattiva
sulla quale abbiamo proiettato tutti i sentimenti negativi. Nella scissione
tra bene e male l'altra persona diviene totalmente cattiva, permettendoci in
questo modo di essere totalmente buoni e virtuosi. Se le sue esigenze sono totalmente
negative, noi ci sentiremo totalmente nel giusto. Questa scissione avviene normalmente
in tre situazioni.
Dapprima nell'infanzia, quando i bambini vivono la madre in questo modo, scindendo
le esperienze buone da quelle cattive, per proteggerne l'immagine come totalmente
buona.
Poi nelle personalità borderline dove questo tipo di scissione è
molto pronunciata, non permettendo di vivere l'altro con una normale ambivalenza,
ma solo con amore o odio estremo.
Infine nelle società
fondamentaliste nelle quali il mondo viene diviso tra gli altri cattivi e noi
buoni. Con il passare del tempo, sorge una forte inimicizia e si rafforza il
sospetto; gli schemi operanti di attacco e contrattacco non permettono a nessuno
degli oppositori di ritirarsi dalla situazione o di abbassare la guardia quel
tanto necessario per poter esaminare altre soluzioni. L'esame e la riflessione
della situazione possiamo chiamarlo 'contenimento' che, nel linguaggio psicologico
delle relazioni oggettuali, viene considerato l'opposto del modello di scissione
in base al quale trasformiamo l'altro nel nemico.
Vorrei aggiungere che in situazioni di stress o pericolo questa scissione è
ancora più pronunciata.
W. Bion è stato un'analista inglese che ha studiato alla scuola kleiniana
delle relazioni oggettuali. Uomo geniale, si serviva del pensiero astratto matematico
per illustrare i concetti psicologici. Molti studenti di psicologia hanno perso
nottate per studiarlo! Ma i suoi contributi sono così straordinari che
senza dubbio meritano ogni sforzo. In sostanza Bion dice che i processi del
pensiero negli esseri umani evolvono attraverso differenti stadi. Lo sviluppo
dipende dal processo di socializzazione e da un agente socializzante, l'oggetto
materno.
All'inizio della vita, il neonato è guidato dalla fame e da paure terribili.
Emotivamente è frammentato dal potere che esercitano su di lui tutta
una serie di spinte istintuali sulle quali non ha alcun potere. Si rivolge alla
madre e in seguito all'immagine fantastica della madre per ricevere aiuto e
consolazione. La madre assume su di sé gli impulsi e le frustrazioni,
contenendoli per conto del neonato. Traduce il pianto del bambino in messaggi
di rassicurazione spiegando, prendendolo in braccio e tranquillizzandolo con
la vicinanza del proprio corpo; sì, lei capisce e tutto va bene. Lui
non morirà e non verrà divorato dalla fame o dal dolore. La madre
riconsegna questi pensieri al bambino dopo averli resi meno violenti. È
un po' come quando una madre mastica un boccone di cibo per renderlo più
digeribile per il figlio. In questa sequenza si ha un interscambio tra madre
e figlio che rende per entrambi la vita più tollerabile. In seguito,
man mano che il bambino cresce, sarà in grado di fantasticare sulla madre
che verrà per risolvere la situazione.
È la stessa funzione dello psicoterapeuta che nel processo terapeutico
fa sì che il paziente si senta compreso, generando in questo modo in
lui maggiore comprensione per se stesso. Il paziente si sente contenuto dall'accettazione
comprensiva del terapeuta.
Bion classifica i sentimenti umani a partire dalla fase Alfa, dove si trovano
quelli più rozzi e primitivi, fino alla fase G, dove colloca il pensiero
totalmente astratto. Il passaggio più importante è quello tra
A e B, ossia l'inizio della riflessione e del contenimento. Il contenitore è
la madre che ascolta, il terapeuta premuroso, l'altra persona o il gruppo disponibile
ad ascoltare, perché ci sia ancora un attimo di riflessione prima che
esploda la rabbia e si compia un atto violento. Il poliziotto dalla strada scongiura
il suicida sul tetto perché rifletta ancora un momento prima di compiere
il gesto. Le nazioni e i gruppi che si fronteggiano in situazioni difficili
può darsi che riescano a contenere la propria sofferenza solo un momento
in modo da ascoltarsi reciprocamente, prima che si innesti un nuovo ciclo di
distruzioni. Ma ciò può avvenire solamente se c'è la percezione
che l'altra parte stia ascoltando. Se non è così, allora, dovrà
entrare in gioco qualche altro fattore per funzionare da contenitore e permettere
così di entrare nella fase Beta. Altrimenti il fuoco dell'odio e dell'ira
dilagherà.
Non c'è nulla di più contagioso e distruttivo dell'isteria di
massa, hanno scritto Freud e altri.
Ciò che i leader non comprendono è quanto sia facile suscitare
lo spirito di vendetta e quanto sarà poi estremamente difficile invertire
tale processo, educando una nuova generazione a indirizzare le proprie energie
nella soluzione dei problemi invece di reagire istintivamente ad attacchi reali
o solo immaginari.
In Israele è un susseguirsi di attacchi e contro attacchi che non portano
da nessuna parte, si agisce a partire dalla fase Alfa. Se solo ci spostassimo
dal livello della violenza istintiva a quello più ragionevole della ricerca
di soluzioni ai problemi potremmo essere guidati da una combinazione di processi
mentali ed emozionali che andrebbero dal contenimento alla riflessione e alla
trasformazione. Potremmo ancora tornare ad essere umani.
Vorrei fare alcune osservazioni sulla psicologia come strumento per l'analisi
sociale e politica. La psicologia cerca di analizzare l'individuo e le sue reazioni
interne basandosi sulle teorie dello sviluppo. Ma nella gran parte dei casi
il comportamento è determinato dalla società e può essere
compreso solo comprendendo il contesto sociale e storico in cui quel dato comportamento
si manifesta. Culture diverse producono organizzazioni di personalità
diverse. Ad esempio, ci sono degli stadi nello sviluppo sociale durante i quali
il collettivo è più importante dell'esistenza dell'individuo.
Quando questo succede, ad esempio in un gruppo religioso fortemente tradizionale,
non si può più comprendere il comportamento dell'individuo solo
attraverso gli strumenti della psicologia.
Anche se si leggono Descartes o Freud, tanto per citare due nomi che hanno rivoluzionato
il nostro modo di pensare, dobbiamo constatare che entrambi rappresentano un
sistema di pensiero chiuso, con un numero fisso di variabili. Si tratta di sistemi
filosofici e psicologici che guardano a un solo aspetto particolare della realtà.
Se cerchiamo di capire gli shahheedim, gli attentatori suicidi, solo in base
a un approccio psicologico, rischieremo di non capire nulla. Il posto che gli
attentatori occupano all'interno del loro sistema sociale, il ruolo, il peso
che occupano nella loro società l'orgoglio e la vergogna, ciò
che pensano del dopo morte, così come altre considerazioni di ordine
politico, non fanno parte del nostro sistema di pensiero o di valori e dunque
non dovremmo avere la presunzione di comprenderli. Dobbiamo operare un cambiamento
reale nel nostro punto di vista e guardare alle cose con occhi diversi, per
quanto possa risultare doloroso e difficile per noi.
Ruth Benedict, l'antropologa sociale, circa 50 anni fa scrisse un libro sul
Giappone, "Il loto e la spada", in cui sostenne che non si può
capire il senso dei kamikaze e il significato sociale delle loro azioni attraverso
gli occhi della cultura occidentale. Possiamo dire che il tentativo di definire
le società tradizionali attraverso la terminologia della psicologia si
rivela fallimentare. Dobbiamo aprirci alla comprensione che in un certo senso
noi non capiamo. Vivremo sulla nostra pelle i tragici effetti delle azioni degli
shahheedim, ma finché non capiremo di più circa il significato
che questi atti hanno nella società in cui si producono, continueremo
a brancolare nel buio e per una volta la psicologia non ci sarà di nessun
aiuto.
Vorrei introdurre una prospettiva diversa a proposito del nemico. Questa nuova
e importante prospettiva ci è stata portata da Nachi Alon, un noto psicologo
israeliano e da Chaim Omer. Dall'inizio dell'Intifada, l'incontro con questi
due autori è stato per me estremamente rivelatore.
Un modo di guardare il nemico è di trasformarlo in un demone, in un essere
sub umano totalmente negativo che non ha nessun diritto di vivere e che deve
essere distrutto. Per i due studiosi si tratta del processo di demonizzazione
o disumanizzazione, e il popolo ebraico ne ha fatto esperienza nel passato e
ancora oggi. Si basa sul presupposto che gli uomini sono divisi in due campi,
i buoni e i cattivi. Coloro che sono i buoni hanno la ragione dalla loro parte
e meritano di vincere; essi possono ricorrere a ogni mezzo perché il
fine giustifica i mezzi.
Tale visione sostiene che gli uomini cattivi lo sono fino in fondo, dalla nascita
alla morte, e nulla può sostanzialmente cambiare la natura cattiva che
è stata data loro in sorte. E anche che, messi alla prova, tutti gli
uomini possono avere un fondo di male che può venire nascosto per difesa
con vari meccanismi. Le persone si possono manipolare, dominare o anche distruggere,
ma la loro inclinazione al male non può essere cambiata. È stato
scritto che gli uomini sono come lupi l'uno nei confronti dell'altro.
Rabbi Nahman di Breslev, un maestro importantissimo della tradizione chassidica,
rifiutò questa impostazione. Egli disse che quando si pesa un uomo bisogna
spingere il piatto verso il positivo e in questo modo egli assumerà l'immagine
che gli è stata data. Chi di noi lavora con i bambini sa quanto sia vero.
Se decidiamo di credere all'approccio della demonizzazione del nemico, non potremo
tollerare alcuna ambivalenza nella comprensione che abbiamo del nemico e non
potremo riconoscere i nostri torti e difetti. Il nemico deve avere assolutamente
torto e noi ragione. Qualsiasi altra posizione potrebbe confonderci e indebolirci
nella lotta con il nemico.
Un'alternativa al processo di demonizzazione è ciò che Alon and
Omer chiamano l'approccio tragico all'uomo e alla storia, secondo cui tutti
gli uomini sono soggetti alle circostanze. Se un uomo, dunque, subisce delle
circostanze tragiche può diventare feroce e rabbioso, pericoloso per
sé e per il nemico. Ma si dice anche che una comunicazione migliore,
o circostanze più favorevoli, potranno determinare un cambiamento in
positivo nell'individuo o nel gruppo. Molti palestinesi e israeliani hanno iniziato
a demonizzarsi a vicenda a causa della sfiducia e della rabbia. Quando si giunge
a questo punto il nemico sembra ancora più pericoloso e l'unica cosa
che appare efficace è ancora più sangue e più pallottole.
Ovviamente tutto questo a sua volta produce maggiore rabbia e ancora più
demonizzazione. Come arrivare a un cambiamento di prospettiva, dalla demonizzazione
al riconoscimento della tragedia?
Molti autori come Rambam (Maimonide) e i maestri chassidici sostengono che il
male e la violenza eccessiva sono il risultato della deprivazione dell'anima
in circostanze tragiche. I rabbini raccomandono di curare la propria anima prima
di affrontare l'avversario. Si guarisce solo dalla comprensione
riflessione
e dall'esaminare se stessi. Il Rambam parla chiaramente del nemico dentro di
noi, l'impulso al male, il satra achra. Nei suoi scritti sulla teshuva afferma
che le vittorie più piccole che si vincono sono quelle contro il proprio
impulso al male. Si tratta un passo molto importante; la riconciliazione è
un processo molto lento e può essere raggiunta solo con grande amore
e compassione nei propri confronti. Non importa quanti errori si siano commessi
o quante persone si siano offese purché non si odi se stessi. E aggiunge:
"Non abusare di te stesso con un eccesso di criticismo". La prossima
volta che ti troverai a ripetere lo stesso errore, fermati e rifletti. Prova
e riprova, come un bambino quando impara a camminare. Non risvegliare la vergogna
o il senso di colpa.
Il senso di colpa è una forma di odio verso se stessi. Non sentirti così
forte ed onnipotente come se dovessi essere capace di controllare tutto il mondo.
Come potremmo imparare la compassione per i nostri nemici se non abbiamo compassione
per noi stessi?
Rabbi Tzadok Hacohen di Lublin ci ricorda che l'uomo ha due nemici, uno dentro
di sé e l'altro fuori. Impariamo ad affrontare quello interno, con compassione
in modo che poi sapremo come affrontare quello esterno.
Trascrizione
della parte conclusiva del seminario tenutosi a Roma il 12 maggio 2002.