"La
rete della riconciliazione"
di Judith Stronach
Riconciliazione,
vale a dire rimettere insieme.
Tale evento, in genere, mi viene
in mente riferito a due persone
o due nazioni, in seguito a una
separazione avvenuta per inimicizia.
A volte mi accade che la riconciliazione
sia ostacolata da limitazioni
di ordine pratico o affettivo.
Allora cerco di raggiungere una
pace interiore, partendo dalla
riconciliazione con me stessa
all'interno della situazione,
cioè con la parte che io
ho nella situazione stessa, e
in certa misura con l'altro. A
volte, a creare la divisione,
ci può essere una grande
ferita - la schiavitù,
i campi di sterminio, i crematori,
la bomba atomica - e la riconciliazione
allora richiederà anni,
generazioni, a volte secoli.
La guarigione avrà inizio
con le "vittime", che
in un secondo tempo potranno trovare
la pace con i discendenti dei
"persecutori". E la
guarigione avverrà proprio
perché queste divisioni
non esisteranno più. Le
persone così riconciliate
potranno anche non essere le stesse
che furono originariamente separate.
Amore e fiducia sono sentimenti
necessari da entrambe le "parti"
per poter credere che la riconciliazione
avverrà in una sfera tanto
ampia che la mortalità
degli individui impedirà
loro di esserne testimoni. E tale
fiducia è indispensabile
per la loro guarigione, in assenza
di una riconciliazione non ancora
avvenuta.
La rete di Indra è una
metafora efficace. In questa immagine,
che prende il nome da una divinità
indiana, l'universo è visto
come un gigantesco reticolato
che tutto ingloba. Nel punto di
intersezione di ogni filo, splende
una gemma irridescente. E in ciascuna
di queste si riflette ogni altra
gemma del reticolato. Nessuna
è realmente visibile: la
si può vedere solo in quanto
riflette tutte le altre. Nessuna
può essere vista separatamente,
ma ovunque si guardi tutto è
visibile. E ognuno di questi gioielli
rappresenta una persona il cui
agire influisce su tutti e su
tutto.
La riconciliazione ha luogo proprio
mediante una rete del genere,
diffondendosi lungo strade che
solo la riconciliazione stessa
conosce. Queste strade sono fatte
di piccoli e grandi gesti di umanità
che si riverberano nelle generazioni
a seguire.
L'umanità di Teresa Giovannucci,
che è morta a gennaio del
1998, ha intrecciato il suo filo
con alcuni fili della mia vita:
l'interesse per l'Italia, per
la nonviolenza e per l'olocausto.
Lei è stata una gemma di
guarigione, e la sua compassione
cinquant'anni fa ha reso possibile
ai componenti di una famiglia
di ritrovarsi attraverso il tempo
e lo spazio. Quando la sua vita
si è intrecciata con la
mia, ho sentito il bisogno di
scrivere questo articolo per diffondere
ulteriormente la sua storia e
far forse vibrare altri fili.
Nel settembre del 1943, a Roma,
Teresa Giovannucci trova il suo
vecchio datore di lavoro nascosto
in un negozio di vini e oli. Gran
parte dei 12.000 ebrei della città
erano riusciti a vivere in relativa
sicurezza durante la guerra fino
a che l'Italia aveva firmato l'armistizio
con gli alleati l'8 di quel mese.
Da parte dei tedeschi era partita
una violenta rappresaglia: dalle
esecuzioni di massa, ai campi
di concentramento, ai convogli
che partivano per Auschwitz. Dalla
comunità ebraica furono
pretese decine di chili d'oro.
Il rabbino, che era stato fautore
di una resistenza nonviolenta,
aveva allora deciso di trovare
un nascondiglio per sé
e per la famiglia.
A differenza del rabbino, solo
poche famiglie di ebrei avevano
scelto questa via, una scelta
comune invece agli ebrei di altri
paesi. Gli ebrei italiani erano
convinti che nulla sarebbe potuto
accadere loro, dal momento che
erano così bene integrati.
Erano dunque del tutto impreparati
e non avevano gli strumenti per
nascondersi o per ottenere documenti
falsi. E in quei primi mesi erano
pochi i cristiani che aiutavano
gli ebrei a mettersi in salvo.
Teresa era una di questi. Aveva
lavorato sedici anni per la famiglia
del rabbino. Poi si era sposata
e trasferita a Riano Flaminio,
il paese del marito, dove aveva
aperto una panetteria. Andava
spesso a trovare i suoi vecchi
padroni di lavoro che erano per
lei come dei parenti. Quando li
andò a trovare quel mese
di settembre, trovò l'appartamento
vuoto e dopo aver rintracciato
il rabbino e la sua famiglia,
li portò a Riano nella
sua casetta di due stanze per
nasconderli. Nonostante fosse
incinta di sei mesi, cedette il
suo letto al rabbino e alla moglie,
accontentandosi di dormire col
marito Pietro sul pavimento. E
così il rabbino e la sua
famiglia si salvarono.
Un mese dopo, a metà ottobre,
le SS tedesche circondarono il
quartiere di Roma in cui abitavano
4000 ebrei. Ordinarono a ogni
famiglia di prendere con sé
cibo per otto giorni, due coperte,
denaro e gioielli, dovendo partire
per un lungo viaggio. La gente
aveva venti minuti a disposizione
per radunarsi. I tedeschi spararono
indiscriminatamente sui palazzi
per evitare che i residenti scappassero
e diedero il via al rastrellamento.
In nove ore furono prese 1259
persone.
Diecimila ebrei riuscirono a sopravvivere
a Roma fino al termine della guerra.
Ciascuno di loro deve la propria
vita all'aiuto di un non-ebreo.
Susan Zuccotti, nel suo bellissimo
"Gli Italiani e l'olocausto",
sottolinea il fatto che ogni deportato
può far risalire il suo
destino ai non-ebrei che si sono
astenuti dall'aiutare o che hanno
deliberatamente fatto la spia,
spesso dietro compenso.
Gli otto componenti della famiglia
del rabbino furono relativamente
al sicuro per nove mesi. Relativamente
. Gli abitanti di Riano, infatti,
sapevano che i Giovannucci ospitavano
dei rifugiati, e tutti sapevano
che si trattava di ebrei. Qualcuno
li tradì. Per fortuna gli
alleati entrarono a Riano quattro
giorni prima dei tedeschi, che
in base ai piani - come si seppe
dopo - erano pronti a saccheggiare
la casa dei Giovannucci e a fucilarli
tutti.
Il rabbino e la sua famiglia,
ovviamente, debbono la vita ai
Giovannucci. La compassione e
il coraggio di questi ultimi riguardavano
anche coloro che ovviamente non
erano ancora nati. Lella Dell'Ariccia
era stata concepita in casa dei
Giovannucci, e sa che non sarebbe
mai nata senza il loro aiuto.
Ho parlato di coloro che ovviamente
non erano ancora nati. Un autentico
atto di nonviolenza ha conseguenze
infinite che spesso la consapevolezza
umana non è in grado di
afferrare pienamente. Come si
legge nel Talmud, "chiunque
salvi anche una sola vita, è
come se avesse salvato l'intera
umanità". E io voglio
raccontare come il coraggio dei
Giovannucci abbia portato alla
riappacificazione di tre generazioni
in una famiglia americana.
La ferita si era aperta quando
Pascal, un cattolico di origine
italiana, aveva sposato una donna
ebrea. La madre, nata in Italia
e vissuta in una casa dove il
cristianesimo si manifestava sotto
forma di santi e crocifissi, si
era rifiutata di assistere al
matrimonio. Passano gli anni.
Pascal si converte all'ebraismo.
Insieme alla moglie entra a far
parte di un'organizzazione che
si occupa di dare riconoscimento
e aiutare quei non-ebrei che avevano
salvato degli ebrei dall'olocausto.
Pietro Giovannucci era morto e
l'organizzazione stava offrendo
supporto a Teresa. Il figlio di
Pascal viene a conoscenza dell'operato
di questa organizzazione e decide,
in occasione del suo Bar Mitzvah,
di donare a Teresa la metà
del denaro che gli viene regalato.
Quando il nonno viene a sapere
che il nipote sta donando questa
somma di denaro a un cristiano
italiano, resta profondamente
commosso. Non era andato al matrimonio
del figlio con una donna ebrea,
ma si reca al Bar Mitzvah del
nipote.
Il buddhismo riconosce un essere,
Kuanyin o Avalokiteshvara, il
bodhisattva della compassione.
A volte di aspetto maschile, a
volte femminile, viene spesso
rappresentato con mille braccia.
Con queste braccia Avalokiteshvara
raggiunge e soccorre coloro che
sono in difficoltà con
la stessa facilità e automatismo
con cui di notte uno raggiunge
e aggiusta il proprio cuscino.
La riconciliazione avviene con
queste mani. Teresa ha allungato
il suo braccio con gentilezza.
E la sua azione ha raggiunto molte
persone: i Vivanti, i Dall'Ariccia,
la gente di Riano, perfino quelli
che tradirono. E ciascuno di questi,
a sua volta, ha influenzato altri.
Una comunità ebraica l'ha
capito e ha voluto onorare l'aiuto
dei non-ebrei con un monumento
dedicato a circa 15.ooo di questi
salvatori. Un'organizzazione di
Boston ha deciso di offrire il
supporto finanziario. Ogni mano
che si apre per aiutare fa un'esperienza
di generosità.
Una mano raggiunge l'altra, e
un'altra ancora, e così
si formano i cerchi. L'organizzazione
di Boston non può esistere
senza i Giovannucci e i Giovannucci
senza l'organizzazione di Boston.
Il loro Mitzvah ha toccato gli
altri. Un padre e un figlio raggiungono
l'illuminazione invisibile. La
rete è ancora più
estesa ora. Può contenere
molto. Può contenere l'amarezza,
il dolore, perfino l'antisemitismo.
Il contenitore, a questo punto,
è forte abbastanza da consentire
una profonda guarigione. Il padre
del padre, che si era allontanato,
si ricongiunge nella rete.
Io ho raccontato di queste poche
persone che si sono riunite. Ma
vi è un numero indefinito
di nodi nella rete, a partire
dalla gente e dalle condizioni
che hanno reso possibile ai Giovannucci
di andare incontro agli altri.
Un padre e suo padre si incontrano
nella rete e possono abbracciarsi.
Chi non vi è incluso? Quale
fede è impossibile di fronte
alla rete che tutto riconcilia?
Judith Stronach, già
membro del consiglio del Buddhist
Peace Fellowship e amministratrice
di un fondo per il cambiamento
attraverso la nonviolenza, vive,
scrive e insegna a Berkley, in
California.
Traduzione di Laura Bisogniero