GUERRIERA DI PACE IN CISGIORDANIA

Intervista con Neta Golan


La trentenne Neta Golan, pacifista e buddhista, vive con il marito palestinese a Ramallah, in Cisgiordania.
Nel 2001 è stata tra i fondatori del Movimento di Solidarietà Internazionale, un'organizzazione impegnata nella resistenza nonviolenta all'occupazione israeliana dei territori conquistati durante la guerra arabo-israeliana del 1967.
Questa intervista nasce da una serie di telefonate di Neta Golan con la redazione della rivista
Trycicle, tra febbraio e l'inizio di aprile 2002.


D: In che modo la pratica buddhista influenza il tuo attivismo?
Neta Golan: Senza di essa dubito che sarei capace di fare quello che faccio. Il buddhismo non è ciò che mi motiva ma mi dà gli strumenti per rimanere equilibrata. Vivere qui con la consapevolezza di ogni tipo di problema ti espone a grandi sofferenze. Essere attiva è il modo che ho per affrontare la situazione, l'impegno la rende sopportabile.

D: Come riesci a reggere la paura di vivere in Cisgiordania?
R: Cerco di abbracciarla, ma sento che su questo devo crescere ancora. Come israeliani impariamo che i palestinesi sono più violenti, che la loro cultura è più crudele. Si tratta di idee profondamente radicate nella psiche israeliana. Cinque anni fa, quando ho iniziato a venire nei territori occupati, prendevo un minibus per Ramallah una volta alla settimana per partecipare ai dialoghi non governativi tra palestinesi ed israeliani e, una volta alla settimana, mi prendeva un attacco d'ansia. Durante i primi quindici minuti ero certa che tutti avrebbero cercato di uccidermi. Ma sapevo anche che nei successivi dieci o quindici minuti mi sarei calmata e allora sarei stata capace di guardare le persone, osservarle mentre andavano al lavoro continuando la loro vita quotidiana. E poi la paura si sarebbe attenuata. Ma la settimana successiva sarebbe ritornata.
Dopo circa un anno e mezzo, smise di assalirmi ogni volta che salivo sull'autobus. Ma ancora mi assale non appena si verifica una situazione di crisi e allora di nuovo penso che stiano per uccidermi. Ma grazie agli insegnamenti e alla pratica di abbracciare la paura, di stare insieme a questo sentimento invece di farmi sopraffare, riesco ad andare avanti. Ho iniziato a vedere che la guarigione è possibile. Sono in grado di vedere i palestinesi come gli esseri umani che sono. Senza gli strumenti della pratica, sarei troppo spaventata per venire qui. Molti israeliani sono intrappolati nella loro paura e non verrebbero mai qui, per non parlare di viverci, tanto meno adesso.

D: Visto il ripetersi degli attacchi suicidi, non è legittimo aver paura?
R: Certamente. Gli attentati suicidi sono brutali. Ma più di un migliaio di palestinesi sono stati uccisi nello scorso anno e mezzo e ancora noi israeliani non vediamo noi stessi come brutali. Una delle ragioni ha a che fare con l'uso delle armi, quando gli uomini non possiedono armi sofisticate e uccidono con le proprie mani allora li consideriamo crudeli. Ma quando uccidono bombardando da un F16 o cannoneggiando da un carro armato o sparando da un M16, allora pensiamo che ci sia meno crudeltà. Se guardiamo al numero, a quante persone vengono uccise, gli israeliani risultano sicuramente i primi. Un omicidio è un omicidio.
Entrambe le fazioni sono coinvolte nel terrorismo, sponsorizzato dallo stato o meno. Ma quando sono gli israeliani a farlo, immediatamente passa l'assunto che sia per autodifesa. Quando sono invece i palestinesi - anche se le vittime sono combattenti armati di un esercito di occupazione - la faccenda viene sempre vista come: "Lo hanno fatto perché ci odiano, lo hanno fatto perché sono violenti".

D: Tu continui a impegnarti perché ci sia una comprensione reciproca più ampia. Ma, viste le circostanze, ci sono momenti in cui perdi la speranza?
R: Certo, dall'inizio dell'Intifada la situazione è peggiorata costantemente. C'è stata una recrudescenza della violenza che continua ad aumentare. Ad ogni peggioramento mi sento crollare, persa, e non so come la situazione potrà cambiare, come potremo continuare a vivere. Ma so che devo farcela. Quando l'onda della disperazione passa, allora mi si presentano nuove prospettive rispetto a ciò che deve essere fatto. Si tratta di un processo che è parte essenziale del fronteggiare, crollare e ricostruire.

D: Come ti rapporti con la rabbia di fronte a gravi ingiustizie e di fronte alle morti da entrambe le parti?
R: Non ho una risposta. Ho trascorso solo tre settimane lontano dalla Palestina da quando è iniziata l'Intifada, di cui una a Plum Village - la comunità di Thich Nhat Hanh in Francia. Non è stato certo sufficiente, ma è stato qualcosa. Qui non c'è mai un'interruzione, non c'è tempo per rielaborare. Ed è così difficile tenere presenti gli insegnamenti. Per esempio, sono molto impegnata nella pratica della nonviolenza e quando vedo ciò che fanno gli attentatori suicidi - ed è raccapricciante - vedo la loro sofferenza. E sento ancora che in qualche modo c'è la tendenza a giustificare la violenza. A un certo punto è diventato un vero problema: sentivo delle uccisioni di coloni ebrei e non ne provavo dolore. Allora mi sono davvero preoccupata. O quando alcuni israeliani vennero uccisi ed io non provai nulla. Si tratta della mia gente, avrebbe potuto trattarsi della mia famiglia. Potevo vedere la mia rabbia e la rabbia mi stava chiudendo il cuore. Non mi piaceva ciò che mi stava succedendo. Ho capito che la rabbia è una forma di avversione e al di sotto c'è un mare di dolore. A Plum Village, non appena iniziai a lavorare con un po' del mio dolore e della mia disperazione la rabbia diminuì. Ma molti palestinesi e molti coloni non possono partire. Sono costretti in questa pentola a pressione ogni giorno ed è ovvio che finiranno per diventare pazzi.

D: Come reagisce la tua famiglia in Israele?
R: Per mio padre è molto difficile. Se potesse fermarmi lo farebbe. Ma le mie difficoltà con lui non sono iniziate con questa Intifada e, d'altro canto, ho già iniziato ad accettare il fatto che mio padre non accetti ciò che io faccio. Mia madre è un'ebrea ortodossa ed anche una vera umanista. A dispetto del fatto che è convinta che questa terra sia stata promessa agli ebrei, non crede che questo ci dia il diritto di toglierne il possesso ad altri. Per lei è una grande sfida. Cerca insomma di mantenere la sua umanità. È molto aperta e comprende le mie motivazioni.

D: Recentemente un ragazzo palestinese di quattordici anni è stato ucciso a colpi di arma da fuoco per aver lanciato una pietra contro un gruppo di soldati da circa un centinaio di metri. Tu hai affrontato il soldato che sparò contro il ragazzo ed egli crollò piangendo. Provi a volte compassione anche per i soldati?
R: È ovvio che nella situazione in cui è stato messo, quel soldato non avrebbe potuto fare altrimenti. Sarebbe stato molto più facile per me prendere semplicemente una posizione. Talvolta quando ti fermano ad un posto di blocco e un soldato cerca di essere gentile, ciò rende tutto molto più difficile perché una parte di te desidera veramente odiare.

D: Durante una manifestazione, un soldato israeliano ti ha spezzato un braccio. Credi nella violenza come autodifesa?
R: No, ma non credo di avere il diritto di dire a qualcun altro di non difendersi. In Palestina è evidente che l'occupazione è una forma di violenza. I palestinesi sono soggetti alla violenza ogni giorno. La loro terra, la loro speranza, il loro futuro, il futuro dei loro bambini, tutto gli è stato rubato. Dire loro di non resistere all'occupazione senza, allo stesso tempo, richiedere la fine dell'occupazione è moralmente sbagliato. Il Movimento di Solidarietà Internazionale sta cercando di creare un'alternativa nonviolenta. Quando ci schieriamo con i palestinesi, ciò offre loro una possibilità di resistere senza uccidere o essere uccisi.

Alcune settimane dopo questa conversazione, Neta Golan è stata in Europa per parlare del suo impegno e per un nuovo soggiorno a Plum Village. Si trovò a rientrare in Cisgiordania solo ventiquattro ore prima dell'occupazione di Ramallah da parte dell'esercito israeliano. Trycicle riuscì a mettersi in contatto con lei proprio il giorno successivo all'assedio.

D: Non è stato semplice raggiungerti.
R: No. C'è solo uno sparuto gruppetto di persone che fanno parte del Movimento di Solidarietà Internazionale che ci aiutano qui. Alcune centinaia si aggiungeranno alla fine del mese. Stiamo davvero battendo la testa contro il muro per cercare di capire come possiamo renderci utili. Proprio in questo momento con un mio amico stiamo andando all'ospedale - l'unico che funziona - per vedere se hanno bisogno di aiuto. I medici non riescono a raggiungere i feriti. Gli israeliani probabilmente non ci lasceranno entrare, ma ci proviamo lo stesso.

D: Cosa potete fare per non rischiare?
R: Non molto. Ma c'è una cosa: se non sembri arabo, sei più sicuro perché i soldati esiteranno a spararti. Non c'è nessuna garanzia, ma sono un po' più al sicuro. Comunque, se mi uccidono questo fatto diventerà uno scandalo. Se è un palestinese a venire ucciso allora è solo uno in più da aggiungere alla lista quotidiana. Nonostante l'invasione, ci sto riuscendo.
Dopo due ore, Golan è riuscita a raggiungere l'ospedale.
Qui all'ospedale mi hanno detto che posso essere utile e così ho deciso di restare. Posso parlare adesso, la situazione è tranquilla al momento. Starò qui tutta la notte. È già calato il buio e non è sicuro andarsene in giro qua fuori.

D: Com'è la situazione?
R: Non buona. Il problema maggiore è stato raggiungere i feriti. Alcuni sono morti perché hanno negato alle ambulanze l'accesso o gli hanno sparato. Se mi facessero salire su un'ambulanza, potrei servire da scudo. Sarebbe un po' più sicuro per loro. E se venissi colpita la notizia farebbe molto più rumore perché sono israeliana. Ma quelli delle ambulanze sono un po' protettivi nei miei confronti: continuano a partire senza di me. Alcuni sono stati colpiti, hanno appena riportato un autista ferito. La scorsa notte sono stati ricoverati cinquantanove feriti. Ma qui ci sono solo quarantasei letti. La maggior parte degli ospedali sono circondati dai carri armati. Un ospedale per la maternità è stato colpito ieri. Sparano al personale medico del pronto soccorso. Il dirigente di un ospedale che cercava di parlare con i soldati per garantire l'accesso all'ospedale è stato ucciso a colpi d'arma da fuoco a Betlemme. Oggi hanno ucciso un giornalista italiano. Gli hanno sparato più volte allo stomaco da una grande distanza. Il conto dei morti ogni giorno supera la decina, ma quando a morire è uno straniero allora fa notizia.
I carri armati si stanno muovendo intorno alla città e la gente resiste, cercando di costringere i carri a restare dove sono. Quello che stanno facendo ora è proprio una dimostrazione di forza, a meno che gli israeliani non inizino le ricerche casa per casa, come hanno fatto a Balata. A Ramallah non lo hanno ancora fatto, ma sono andati in un campo profughi di Ramallah ed hanno ammassato tutte le persone. Attraverso gli altoparlanti hanno chiamato tutti i maschi in età compresa tra quattordici e sessant'anni. Li hanno ammanettati e bendati. Alcuni sono stati portati via. Un mio amico si è recato oggi nel campo e ha sentito la gente lamentarsi: "Non so dove sia mio marito", "Non so dove sia mio padre".

D: Cosa fai all'ospedale?
R: Tutto ciò che posso. Pulire, qualunque cosa ci sia bisogno. Siamo in pochi e c'è così tanto da fare. Usciamo a cercare il cibo: latte in polvere, sigarette - perché le persone hanno paura di uscire dalle proprie case mentre come gruppo internazionale siamo un po' più protetti. Alla fine di questo mese ci aspettiamo degli aiuti. Alcune centinaia di persone sono in arrivo. Tra loro ci sono americani e canadesi.
L'assedio sta uccidendo la gente. Non si può andare all'ospedale, la situazione economica è terribile. La gente cade in preda alla disperazione. Israele sta tentando di forzare l'Autorità Palestinese ad accettare un accordo che concederebbe meno di uno stato vero e proprio, eliminando completamente il diritto al ritorno. Credo veramente che Israele ritenga che esercitando una pressione sufficiente i palestinesi accetteranno. E invece non lo faranno.

D: Cosa pensi del diritto al ritorno dei palestinesi?
R: Penso che si tratti di un diritto umano basilare. Sono così tanti i rifugiati, e le loro case sono ancora in piedi oppure la loro terra è ancora qui. Ovviamente hanno il diritto di avere la loro terra. Come israeliana posso dire che Israele non è una democrazia. Una nazione che è continuamente ossessionata dalla composizione demografica, conservando la maggioranza degli abitanti nei territori, è un'etnocrazia. Sono davvero colpita dalla quantità di paura che gli israeliani provano nei confronti dei palestinesi. Credo che gran parte di tale paura derivi dal vivere nel rifiuto della verità. Da qualche parte nel nostro inconscio sappiamo che stiamo vivendo sulla terra di qualcun altro. E c'è bisogno di giustificarlo, così i palestinesi diventano qualcosa di diverso da noi, dei selvaggi assetati di sangue. Ciò è vero in ogni società colonialista. E non è di gran beneficio per noi, per Israele. Per Israele, per vivere in una democrazia ed essere liberi, i rifugiati dovrebbero fare ritorno. Dovremmo vivere insieme. Ed io credo che possa funzionare ed essere bellissimo. Mentre la soluzione di creare due stati, risolve tutti i problemi fuorché quello dei rifugiati, dal momento che riguarda i palestinesi. Dal mio punto di vista, non risolverebbe il mio problema perché io continuerei a sentirmi in un'etnocrazia. Una democrazia ebraica è una contraddizione in termini.

D: Quanto è realistica questa visione del vivere tutti insieme?
R: Quanto è realistica questa guerra?

Alcune ore dopo, all'ospedale.

D: Sei appena tornata da Plum Village. Come sei stata?
R: È stato bellissimo.

D: In questo momento deve sembrarti molto distante
R: Sì e no perché adesso sto praticando molto di più.

D: In che cosa consiste la tua pratica?
R: Non proprio negli insegnamenti di Plum Village. Sto seguendo la pratica del tonglen (la pratica tibetana dell'assumere su di sé la sofferenza degli altri). Non so bene come dirlo, ma funziona davvero bene! La visita a Plum Village è per me molto presente in questo momento.

D: Riesci a fare la tua seduta di meditazione? Ti è possibile?
R: Molto poco, molto poco. Quando la gente prega, come oggi quando ho sentito i musulmani pregare, mi sono seduta. Pratico la meditazione seduta due volte al giorno. Non è il fatto che sembri pazzesco sedersi che lo rende difficile, perché puoi sempre sederti, anche nel mezzo di una guerra, ma è la mancanza di un sangha, di una comunità di pratica, a renderlo difficile.

D: Cosa ti aiuta a ricordarti la pratica?
R: Talvolta ricevendo una telefonata, come ora, o prendendo in mano un libro. Una delle cose che Thay (Thich Nhat Hanh) dice è che quando abbracci una persona cara, inspirando, puoi dire: "So che il mio amato è vivo" e espirando : "Sono così felice che siamo vivi". La relazione con mio marito è un supporto reale per la pratica. Stare con lui è per me il migliore nutrimento. Proprio perché a causa dell'intensità della nostra situazione sono consapevole che proprio il fatto di essere vivi è davvero speciale. Siamo entrambi vivi. Ogni momento è prezioso, ma non è soltanto prezioso, è pratica.

D: Hai un rapporto speciale con Thich Nhat Hanh per la sua esperienza con la guerra?
R: Sì, assolutamente; quando ho incontrato Thay, ho pensato di andare a studiare con lui proprio per la pace che irradiava. Non ho mai visto niente di simile in un essere umano, l'ho soltanto letto nei libri. E apprezzo il fatto che sia un pacifista. Il suo stare nel mondo, è una cosa che ammiro. Non chiude gli occhi. Sono molto grata a persone come lui. Anche con sister Chan Khong, la monaca a capo del sangha, mi sento davvero molto connessa. Per me è esserlo con le comunità spirituali israeliane. Ci sono grandi persone che hanno grandi ideali e che desiderano renderli effettivi, ma in qualche modo questo non fa loro superare il tipo di rapporto che hanno con i palestinesi. Con ciò che sta succedendo politicamente, questa è una barriera. E per me è davvero difficile.

D: Che cosa hai fatto a Plum Village? Hai partecipato a un ritiro?
R: Dal giorno che ho lasciato la Palestina ho iniziato ad ammalarmi. Il mio corpo aveva abbandonato le sue difese. Quando sono arrivata a Plum Village ero davvero in pessima forma. Stare lì con le monache, in quell'atmosfera è stato un grande aiuto. Plum Village è l'unico posto dove posso veramente riposare. Lì ogni cosa ti aiuta a riposare. In un primo momento me ne stavo soltanto a letto, ma poi venne una dottoressa a visitarmi chiedendomi come stava andando la mia pratica e se ero in grado di seguire il respiro. Io le risposi: "Beh, faccio un sacco di sogni ad occhi aperti". La dottoressa mi incoraggiò a riposarmi e a praticare. È buffo, è stata la pratica che mi ha consentito di riposare e il riposo che mi ha consentito di praticare. Ero arrivata a Plum Village con una domanda interiore su cui lavorare. Non so se realmente ci ho lavorato in modo conscio, ma sono tornata a casa con una risposta.

D: Qual era la domanda?
R: Nei cinque addestramenti alla consapevolezza di Thay, la prima frase che usiamo è: "Non giustificherò alcun atto di uccisione nel mondo, nei miei pensieri e nel mio modo di vivere" ed ho compreso che non davo un giudizio negativo dei palestinesi che resistevano all'occupazione militare con la violenza. Posso parlare con loro usando argomenti contrari all'uccisione di civili, e lo faccio. Per me è chiaro che il terrorismo e il terrorismo di Stato sono due facce della stessa medaglia della segregazione. Esse si combattono ma non possono esistere l'una senza l'altra. Ma ritengo immorale denigrare gli attacchi ai soldati che portano avanti l'occupazione con la violenza. In un certo senso li giustifico. Era questa la mia domanda: come comprendere ciò alla luce degli insegnamenti.

D: Qual è stata la tua risposta?
R: Non ho la risposta che credo darebbe Thay. Io penso che se giustifico le uccisioni è perché il mio cuore è chiuso. Questa è la mia risposta. A causa della rabbia razionalizzo il fatto di uccidere. Ma se riesco a convivere con il dolore e con la rabbia che l'apatia degli altri accresce, allora sarò capace di accettare che la mia gente si trovi esattamente al punto in cui è, senza fare questioni e senza rifiuti rabbiosi. Il mio accettare il fatto di uccidere sarebbe diverso. Thay probabilmente avrebbe una risposta migliore, ma questo è ciò con cui io sono tornata a casa.
Spesso non voglio sentire il dolore o la rabbia e così non trascorro molto tempo in Israele, ma dovrei invece fare esattamente il contrario cercando di andare incontro al dolore, di abbracciarlo, di comprenderlo in me stessa. Per vedere veramente qualcosa, per abbracciarla veramente devi essere solido, centrato, altrimenti non puoi guardare in profondità. Durante il mio soggiorno a Plum Village ho avuto l'opportunità di guardare la mia avversione per la violenza. Non riuscivo sopportare il pensiero della violenza o le immagini di violenza che avevo visto alla televisione e così ne ho fatto oggetto di meditazione.
Mi sono semplicemente seduta con la violenza, con tutta la violenza della mia vita e alla fine i momenti della mia vita in cui io ero violenta. Mi sono sentita come se avessi ricevuto un pugno nello stomaco. Ho compreso che la ragione per cui cercavo di evitare la violenza non era perché ero spaventata da quella degli altri, ma perché avevo paura della mia. E guardando i momenti in cui io ero stata violenta ho cercato di capire i perché e di provare compassione per me stessa. So che se mi do la possibilità, dovrò guardare in faccia questo dolore e sono sicura che scoprirò qualcosa. Non so che cosa, ma sono sicura che mi sarà di beneficio. La cosa misteriosa è che, sebbene io abbia gli strumenti e sappia di cosa ho bisogno per farlo, non so se lo farò. È strano. So che c'è una via per trovare la pace e so anche qual è, ma non so se la intraprenderò. Spero di farlo.

Alla fine del marzo 2002, l'esercito israeliano ha assediato il quartier generale dell'autorità palestinese. Golan, insieme ai membri disarmati del Movimento Internazionali di Solidarietà e di un altro gruppo, la Forza di Protezione Internazionale di Base, hanno marciato attraverso le fila degli stupefatti soldati israeliani fino al quartier generale di Yasser Arafat per portare aiuto medico ai feriti e per servire da scudi umani. Quella che segue è l'ultima conversazione telefonica di Trycicle con Golan, il 10 aprile, dall'interno del quartier generale di Arafat. Golan aveva appena ricevuto la notizia che un suo caro amico era stato ucciso a Nablus. Nel quartier generale il cibo, l'acqua e le medicine iniziavano a scarseggiare.

Golan: È stato molto doloroso, ma ora mi sento molto meglio. Ho parlato con mio marito, sta bene. È a Nablus, la sua città. Lì si sono ritirati dalla città vecchia.

D: Quanto tempo pensi di restare nel quartier generale di Arafat?
R: Finché gli israeliani non se ne andranno. In questo momento chiunque cerchi di andarsene viene arrestato, interrogato, deportato.

D: Come israeliana quali rischi particolari corri se te ne vai adesso?
R: Probabilmente sarei arrestata, processata e messa in prigione.

D: Lo sai che oggi c'è stato un altro attentato suicida ad Haifa?
R: Si, ma il governo israeliano sa benissimo cosa fare per fermare gli attentati. Quando Barak ha voluto la tranquillità prima delle elezioni ha aperto le strade, ha ripreso i negoziati. Basta dare alla gente un po' di speranza. Se uno sente di avere uno strumento efficace per cambiare grazie al negoziato, allora un attacco suicida è l'ultima strada da prendere. Ma stando così le cose, non hanno nulla da perdere. Credo che gli israeliani intenzionalmente "talibanizzino" le strade, così possono avere la loro "guerra al terrore" per non dover scendere a patti con la domanda legittima di uno stato palestinese.

D: Sei ancora così convinta della resistenza nonviolenta come alcune settimane fa?
R: Naturalmente. Il successo che abbiamo avuto come gruppo di pacifisti disarmati ha rafforzato la mia convinzione, da quando siamo arrivati gli israeliani hanno sparato un solo missile qui. Entrambi i fronti sono armati e noi come civili disarmati siamo stati capaci di intervenire. Mettiamo le nostre vite in prima linea, diciamo: "Se ucciderai queste persone dovrai uccidere anche noi".
Spero che ci siano molte più persone da tutto il mondo, sapevamo che gli israeliani sarebbero entrati a Jenin, volevamo andarci, ma non eravamo abbastanza. È interessante vedere cosa può fare un piccolo gruppo di pacifisti. Possiamo portare la pace. Se saremo pronti a donare le nostre vite per la pace così come i soldati sono pronti a morire in battaglia, la pace sarà possibile.
Finché durerà l'occupazione, continuerò a invitare altri attivisti. Chiunque può, venga in Palestina. Mandate un rappresentante dalla vostra comunità. Abbiamo bisogno di persone da tutto il mondo per assicurare che la legge internazionale venga applicata anche qui.

Neta Golan è rimasta nel quartier generale di Arafat a Ramallah fino all'inizio di maggio quando ebbe termine l'assedio.


da Trycicle, n° 4, Estate 2002
Traduzione di Stefano Bettera