LETTERE DALL'IRAQ
Elias Amidon e Rabia (Elizabeth Roberts)
Elias Amidon è un membro anziano della Peacemaker Community.
Con la moglie Rabia (Elizabeth Roberts) ha fondato l'Institute for Deep
Ecology e il Boulder Institute for Nature and the Human Spirit. Entrambi
gestiscono corsi di formazione per attivisti spiritualmente impegnati negli
Stati Uniti, in Europa e nel Sud Est Asiatico e sono noti a livello internazionale
come formatori nel campo dell'ecopsicologia applicata.
Hanno inoltre curato le raccolte Earth Prayers, Life Prayers, e Prayers
for a Thousand Years. Rabia, studiosa di buddhismo da venticinque anni, tiene
lezioni e conferenze in tutto il mondo sui temi dei valori, della leadership
e dello sviluppo del potenziale femminile ed è stata coordinatrice al
congresso annuale dell'IONS a Palm Springs nel 1997. Elias è docente
di direzione ambientale presso la Naropa University, e tiene seminari di spiritualità
interreligiosa e azione sociale. È il Mushid dell'European Sufi Way.
Per contattare Elias e Rabia si può scrivere al seguente indirizzo: eliasamidon@earthlink.net.
Roberto
Mander
AUTUNNO 2002
Cari amici,
ecco finalmente un'altra "lettera dalla strada", anche se un po' diversa
dalle precedenti in quanto parla di dove stiamo andando e perché ci andiamo,
piuttosto che descrivere dove siamo stati.
Alcune settimane fa, io e Rabia abbiamo ricevuto l'invito a unirci a una delegazione
di pace in partenza per l'Iraq. La nostra reazione è stata immediata
e unanime - un semplice "sì" - senza nemmeno bisogno di discuterne.
Una convinzione che si è rafforzata col passare dei giorni. Rabia ha
osservato: "Molti vorrebbero poterlo fare, esprimere la propria disapprovazione
verso la politica aggressiva del nostro governo e la solidarietà per
gli iracheni innocenti: ma non possono per motivi pratici. La possibilità
noi ce l'abbiamo, quindi dobbiamo usarla."
La partenza dagli USA è fissata per il 30 ottobre, nella speranza di
attraversare il deserto da Amman a Baghdad il giorno 4 di novembre. Al momento
pensiamo di trattenerci per due mesi, ma dipenderà da vari fattori ancora
ignoti. Una volta in Iraq farò il possibile per inviarvi frequenti e
più brevi resoconti. Vi invitiamo a partecipare al nostro viaggio, e
imparare con noi.
In pace e determinazione
Elias e Rabia
Il mio paese è sul punto di muovere guerra all'Iraq. In segno di protesta
contro questa scelta, insieme a mia moglie Rabia, abbiamo deciso di recarci
in Iraq di persona, per condividere con comuni cittadini iracheni l'attesa dell'inizio
delle ostilità. Appena possibile partiremo con la delegazione di pace
per l'Iraq.
Perché lo facciamo? Un amico ci ha detto: "È idealistico,
ingenuo, e non cambierà nulla. Le forze in gioco sono immani e stanno
già muovendosi. Non si fermeranno, né per voi, né per nessun
altro."
In risposta a questa e altre simili obiezioni, e a beneficio dei miei figli,
dei miei amici e della comunità estesa, vorrei esprimere in questa sede
le motivazioni, politiche e spirituali, che mi spingono a una decisione apparentemente
così irragionevole.
L'obiezione più comune al "no" alla guerra è: come rispondere
a Saddam? Sono dell'avviso che Saddam sia un facinoroso, un pericolo per il
suo paese e potenzialmente per tutta l'area. Durante la guerra del Golfo, Rabia
e io eravamo a Riyadh, in Arabia Saudita, e siamo scampati per miracolo agli
scud di Saddam. Non mi faccio illusioni sulla sua propensione a ricorrere alla
violenza, anche se va ricordato che secondo le stime dello stesso Pentagono
l'80% del potenziale bellico iracheno fu distrutto nel 1991, e che il 90% delle
materie prime e delle attrezzature necessarie per costruire armi per la distruzione
di massa è stato liquidato dagli ispettori dell'ONU nel corso di più
di otto anni di ispezioni. Ciò non toglie che a mio parere la comunità
internazionale, tramite l'ONU, debba agire al fine di contenere e ridurre la
capacità e la propensione di Saddam all'uso delle armi, così come
è suo dovere farlo nei confronti di tutte le nazioni e i gruppi aggressivi.
Tuttavia, la nuova, arrogante politica estera del presidente Bush che consente
agli USA di aggredire preventivamente e unilateralmente un paese che non ci
ha aggredito, compromette seriamente il progresso morale conseguito dalla comunità
delle nazioni negli ultimi cento anni. Ritengo che tale politica sia non soltanto
sbagliata, ma rappresenti l'avvento di un nuovo corso che, perseguito, potrebbe
portare a decenni di violenza e tragedie. Essa crea un pericoloso precedente
per consimili iniziative da parte di altre nazioni e indebolisce sostanzialmente
l'autorità dell'ONU nella gestione dei conflitti. Con tutte le sue carenze,
l'ONU rappresenta ancora il più promettente esperimento collettivo mai
concepito dal genere umano nella ricerca di una via alla pace e alla giustizia
nel mondo. Ritengo che l'ONU e tutte le sue risoluzioni debbano ricevere pieno
appoggio, e non subire marginalizzazioni o strumentalizzazioni da parte degli
imperativi americani.
Ma non è questa la sede per sviscerare torti e ragioni in merito alla
situazione in Iraq e in Medio Oriente. Mi basti dire che come cittadino degli
Stati Uniti provo sgomento e il dovere morale di agire di fronte alla scelta
del mio governo di gettarsi in una guerra d'aggressione, scelta che espone il
nostro paese a un più elevato rischio di attentati terroristici, destabilizza
un'area già instabile, aggrava la polarizzazione e la sfiducia presenti
nel mondo, esautora l'ONU, offende i più nobili principi su cui si edifica
la nostra nazione e che, soprattutto, provocherà la morte e la mutilazione
di molti civili iracheni innocenti. È quest'ultimo problema, il problema
dei cosiddetti "danni collaterali", che mi turba maggiormente, ed
è il motivo principale che mi spinge a recarmi in Iraq.
Da questo punto di vista - a fronte dei costi umani di questa guerra imminente
- il nostro viaggio in Iraq non è solo una protesta politica per sollecitare
un mutamento negli orientamenti del governo. È anche un gesto morale
o spirituale, paragonabile alla preghiera, al pellegrinaggio, o alla pratica
di amare il nostro prossimo. È un appello al cambiamento, certo, ma un
appello che si pone fuori dei modi logici e consueti di affrontare i problemi
politici, con la sua enfasi sulle cause e gli effetti e la ricerca di azioni
specifiche volte a ottenere specifici risultati. Cercare una soluzione ai problemi
su questo piano è certamente necessario: ma non è questo che mi
motiva a mettere a repentaglio l'incolumità di mia moglie e la mia.
Farci pellegrini per essere accanto a una comunità di cittadini di una
terra lontana che sta per essere aggredita dal mio paese non ha a che vedere
con il "risolvere" problemi. È un gesto, un appello, rivolto
a qualcosa di diverso, a qualcosa dentro di noi, dentro di me e dentro tutti
noi, quel luogo in noi dove ci sorprende l'intuizione di un'origine, uno spirito,
desideri e destinazione comuni. Se potessimo veramente toccare quel luogo, io
credo, la spada ci cadrebbe dalle mani. È per fare appello a quel luogo
in noi, in me, che vado in Iraq. È un appello più simile alla
poesia che alla prosa, forse inutile e incurante dell'esito, ma dedicato nondimeno
a qualcosa di prezioso per tutti i popoli: l'immediatezza della solidarietà
umana.
Siamo, in definitiva, fratelli e sorelle. Che differenza c'è, per innocenza
e sacralità, fra mio figlio che dorme nella stanza accanto e un bambino
addormentato di Basra o di Baghdad? Se voi foste il padre di quel bimbo iracheno,
gli occhi puntati al cielo minaccioso, che cosa provereste? Vi invito a fare
esperienza di questa domanda. Ci porta a quel luogo interiore di cui parlavo,
il luogo della comune identità. Un luogo tenero e familiare.
Vado in Iraq per stare accanto a quel padre perché sono convinto, dopo
tutto ciò che si è detto, che ci sia poca differenza fra noi,
specialmente per quanto riguarda la vita che vogliamo per i nostri cari. So
anche che i privilegi di cui godo sono in qualche maniera alleati alle forze
che lo minacciano, e ho bisogno di espiare per questo, se non altro a titolo
personale. Voglio che lui e sua moglie e i suoi vicini di casa sappiano che
non sono completamente soli, e voglio che la mia famiglia e i miei vicini e
la mia comunità sappiano di quell'altra famiglia, e sappiano del ruolo
che giochiamo a nostra insaputa nella sua sofferenza. Se fossi nei panni di
quel padre, apprezzerei il gesto.
Invieremo frequenti servizi e resoconti, foto digitali e audio al nostro gruppo
di sostegno a Boulder, Colorado, che a sua volta li passerà ai giornali,
alle radio e alle televisioni locali, nonché ai nostri deputati e senatori
al Congresso. Invieremo anche frequenti "lettere dalla strada" al
nostro indirizzazio e-mail (se non ne avete ancora ricevuta nessuna e volete
far parte della lista, inviate il vostro indirizzo e-mail a: eliasamidon@earthlink.net)
Se siete interessati a unirvi alla delegazione di pace in Iraq, sappiate che
ce n'è un gran bisogno e siete caldamente benvenuti! Per informazioni
e iscrizioni consultate il sito www.iraqpeaceteam.org
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Baghdad, 9 novembre 2002
Siamo arrivati
a Baghdad all'una del mattino, in un vetusto albergo di sei piani accanto al
fiume Tigri. La hall odora di kerosene: ci lavano i pavimenti, in mancanza di
detersivo. Una scimmia, da dietro al bureau, si arrampica sulla sua gabbia e
ci scruta incuriosita mentre consegnamo i passaporti. Un pappagallo dorme in
un'altra gabbia, la testa affondata fra le piume della spalla. (...)
Nelle ultime settimane, gli iracheni hanno ridotto il numero e la durata dei
visti rilasciati a tutti gli stranieri. Molti giornalisti hanno dovuto lasciare
il paese, per esservi riammessi solo pochi per volta. Le fila della delegazione
di pace per l'Iraq (Iraq Peace Team) si sono ridotte da venticinque a
otto persone. Restiamo fedeli al progetto iniziale di portare centinaia di americani
sul posto, a testimoniare le condizioni dei cittadini iracheni prima e durante
l'attacco USA, ma nessuno sa con certezza quando verrà realizzato. (...)
Al mattino, attraversiamo Baghdad per recarci in visita a un ospedale pediatrico
- la prima occasione di vedere la città al suo risveglio. È più
o meno come me l'ero figurata, ma sono scosso al pensiero che questa è
la capitale "del nemico". I rioni sono agglomerati di edifici a due
o tre piani, scialbi e cadenti, avvolti da cavi elettrici e telefonici abborracciati,
i marciapiedi sfasciati. Qui e là compaiono edifici più grandi,
certi in condizioni migliori, ma l'impressione generale è di sfinimento:
è una città logora e consunta. Il taxi che ci porta ne è
un buon esempio. Gran parte del cruscotto si è sgretolata, manca il rivestimento
interno dello sportello, come la manopola del finestrino, il contachilometri
è rotto e la carrozzeria via via rappezzata con rottami di vario colore.
Mi ricorda Managua, o l'Havana, città nemiche di un tempo, sfiancate
dalle sanzioni americane. Le strade pullulano di veicoli simili al nostro taxi
che arrancano fra sbuffi di fumo, di autobus cadenti coi finestrini sudici e
i fianchi ammaccati, pieni di passeggeri a loro volta stanchi e depressi, come
la città.
Questo sarebbe il nemico? È questa la minaccia all'equilibrio geopolitco
del potere nel mondo di cui parlano gli USA? Non riesco a capacitarmi. Al momento
in cui scrivo sono passati quattro giorni dal mio arrivo e ho già fatto
diverse escursioni in città: la mia impressione si è, se mai,
rafforzata. Gli Stati Uniti vogliono bombardare questo posto? Quale cieca crudeltà
è mai questa? Penso a Dick Cheney, Donald Rumsfeld e Paul Wolfowitz che
veleggiano da un capo all'altro di Washington nelle loro snelle limousine nere
lungo strade piane fiancheggiate da cordoli, nitidi viali alberati, fra edifici
imponenti dotati di ascensore e sistemi di sicurezza computerizzati, con le
finestre lavate a orario e la moquette pulita ogni sera, con i loro computer
ronzanti connessi a vasti sistemi informativi. Qui a Baghdad, portare a termine
una telefonata è già un'impresa notevole.
L'argomento del giorno è la risoluzione unanime del consiglio di sicurezza
dell'ONU di inviare ispettori degli armamenti. A pranzo, ingenuamente, ho espresso
l'opinione che forse non è un cattivo affare: sottomettersi a tutte le
ispezioni sarebbe per gli iracheni una mossa di aikido che metterebbe al tappeto
il gigante aggressore. I veterani locali mi hanno pazientemente spiegato come
gli USA sarebbero pronti a vanificare la buona volontà dell'Iraq: in
passato hanno accusato gli iracheni di ostruzionismo per via di un ingorgo stradale!
Per una gomma bucata! Per una chiave smarrita! Ma questo non è il punto,
spiega un eloquente irlandese membro della delegazione di pace. Gli USA non
hanno interesse a mandare a buon fine le ispezioni. Vogliono vederle fallire.
Sono interessati all'enorme mare di petrolio nelle viscere di questo paese,
e a controllarne la vendita in modo tale che il denaro speso per acquistarlo
sia riciclato nell'economia americana attraverso l'acquisto di merci americane.
Mi congedo con la speranza che si sbagli, sperando contro ogni speranza che
il solo obbiettivo del mio governo sia eliminare le armi di distruzione di massa
in possesso dell'Iraq. Ma più tardi nel pomeriggio leggo un articolo
su internet tratto dal New York Times di oggi, che contiene il seguente passo:
"Malgrado la professata fiducia dell'amministrazione nelle ispezioni, c'è
una radicata paura inespressa che il presidente iracheno Saddam Hussein possa
semplicemente fingere di cooperare, e che gli ispettori trovino poco o nulla
di compromettente. Ciò priverebbe l'amministrazione delle prove sufficienti
a persuadere il consiglio di sicurezza, i potenziali alleati e perfino gli americani
circa la necessità di una guerra."
Come dire che i giochi sono già fatti. È impossibile per l'Iraq
cooperare efficacemente con gli ispettori, anche se ci provasse.
I ponti sul fiume Tigri, in gran parte distrutti dalle bombe durante la guerra
del Golfo, sono stati riparati. Mentre ne attraversiamo uno in macchina, guardo
la città e immagino un nuovo attacco americano, più aggressivo
stavolta perché sarebbe seguito da truppe di invasione USA e britanniche
con le loro tecnologie sofisticate, gli M-16, i carri armati Bradley, le portaerei
corazzate e gli humvee (1).
All'ospedale pediatrico abbiamo parlato con un primario che, con aria afflitta,
recitava le statistiche ormai note: medicine insufficienti, attrezzature guaste
o irriparabili, niente denaro per gli stipendi del personale, mortalità
infantile post-natale otto volte più alta che nel 1990. "L'Iraq
possiede otto macchine per la radioterapia del cancro. Cinque sono del tutto
fuori uso. Le altre tre mancano di materiale radioattivo. Abbiamo bisogno di
cobalto per questo, non di uranio! Ma le sanzioni non permettono l'importazione
del cobalto".
Due giorni fa diversi di noi sono stati al quartier generale dell'ONU per tenervi
una veglia, cosa che facciamo quotidianamente. Ci siamo messi accanto alla trafficata
strada principale reggendo striscioni con su scritto, in inglese e in arabo,
"No alla guerra USA in Iraq!", "Pace", "Lasciamo vivere
l'Iraq!", e altro ancora. Gli automobilisti suonavano il clacson, facevano
gesti di saluto. Le sentinelle irachene a guardia del palazzo dell'ONU avevano
facce compunte. Dopo circa un quarto d'ora si sono fermate due macchine da cui
sono scesi diversi reporter con macchine fotografiche e microfoni. Poi è
arrivato un pullman che ci ha regalato una scena sorprendente: venti musicisti
italiani con percussioni, sassofoni, violini e tamburelli, che ci hanno subito
salutato con chiassosa, contagiosa allegria! Un attimo dopo eccoli lanciarsi
in frenetiche melodie jazz, condite da salti, risate e larghi sorrisi. Erano
venuti in Iraq per una settimana come ambasciatori di buona volontà,
e la buona volontà ce l'avevano! Sembrava una scena degli anni '60, tutti
che sorridevano e ballavano, il sassofonista che ondeggiava e saltellava stringendo
gli occhi chiusi. Le auto si fermavano, la gente scendeva, altri soldati accorrevano
dal palazzo per tenere sotto controllo la situazione, ma gli italiani erano
irrefrenabili. Ben presto anche i soldati sorridevano e applaudivano la musica,
posando per i fotografi accanto ai musicisti, e tutti a intervistare tutti,
l'austera signora della missione cristiana per la pace circondata dai percussionisti
italiani mentre ciascuno scattava foto dell'altro, e tutti ridevano, battevano
il tempo e applaudivano come se, per un attimo, la povertà, il bisogno,
la minaccia di guerra fossero dimenticati, e la pace fosse scoppiata - lieta,
spensierata, affettuosa - proprio lì, sul ciglio della strada.
Elias
Amidon
Rabia (Elizabeth Roberts)
(1) NdT.:
Gli "humvee" sono grossi fuoristrada militari - pesantemente armati
tanto da essere definiti "hunter-killer" ("caccia e uccidi")
- impiegati anche in Afghanistan.
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Aspettando le bombe!
Baghdad, 20 novembre 2002
Come ci si prepara
ad essere attaccati dalla maggiore potenza militare del globo? Questa domanda
mi assilla ogni giorno. Quando domando agli iracheni cosa provano e come si
preparano mi rendo conto di quanto sono vulnerabili. Qui sappiamo pochissimo
di cosa succederà o quando, a parte le notizie su internet che leggiamo
quando funziona - un lusso che la gente di Baghdad, per lo più, non può
permettersi. Ogni giorno aspettano di veder piovere dal cielo tonnellate di
esplosivo. Aspettano, preoccupati, e tirano avanti.
Ho chiesto a Fatima, madre di nove bambini, che divide con loro, suo marito
e sua sorella una casa di tre stanze: "Come vi preparate alla guerra?".
"Non possiamo fare granché. Abbiamo alcuni litri di kerosene di
riserva per la stufa, e abbiamo nascosto della benzina in giardino casomai dovessimo
lasciare Baghdad. Aspettiamo e basta, sperando che gli americani rinuncino a
fare la guerra".
Amal, una donna più anziana e colta della classe media, esprime la sua
indignazione per la politica di Bush: "Non capisco proprio come può
fare una cosa del genere! Come può screditare le ispezioni e al tempo
stesso parlare di aggredirci? Ucciderà persone innocenti. Non ci lascerà
nemmeno la speranza! Ma quest'uomo non ha sangue nelle vene?".
La casa di Amal fu colpita da una bomba nel 1991. Si trova vicino a un ponte
sul fiume Tigri. Le ho chiesto se ha un rifugio anti-bomba. "No, a che
servono i rifugi, resteremo tutti seduti in una stanza, così se succede
qualcosa saremo insieme". Sua figlia mi ricorda il tremendo bombardamento
del rifugio antiaereo di Aamayria, colpito in pieno da un missile USA durante
la guerra del Golfo. Quattrocentoquindici fra giovani madri e bambini restarono
uccisi e centinaia furono i feriti. Ora si è diffuso il sospetto che
gli americani prendano di mira i rifugi antiaerei di proposito, per cui in pochi
fanno conto di servirsene.
Il corpo docente di un istituto che visitiamo regolarmente prepara gli alunni
alla guerra imminente sparando in aria colpi di fucile al momento dell'alza-bandiera,
per abituarli al rumore delle esplosioni. Di recente ho letto un articolo che
parlava dei traumi e dei disturbi mentali causati dalla guerra, a cui i bambini
sono particolarmente esposti.
Il governo ha distribuito razioni di cibo cumulative per i mesi di novembre
e dicembre, invitando la gente a metterne da parte un po'. Ma molti lo mangiano,
o vendono le razioni in cambio di contante di cui c'è estremo bisogno.
Una rappresentante della FAO ci ha detto che in caso di guerra molti iracheni
andranno incontro a gravi mancanze di cibo e acqua. Dopo undici anni di sanzioni,
si sono estremamente impoveriti. La guerra esigerà un pesante tributo
di vittime civili, il cosiddetto danno collaterale.
(Per un articolo altamente informativo e approfondito sulle conseguenze previste
della guerra sui civili, a cura dell'International Physicians for the Prevention
of Nuclear War, vincitore del premio Nobel, vedi www.ippnw.org
o www.medact.org).
Molti locali ci dicono che se l'America invade l'Iraq prenderanno le armi. Per
quanto contrari al governo, il pensiero di una potenza straniera che invade
il proprio paese li spinge a fare fronte. "Se vengono i soldati americani",
dice Amal, "resisteremo, come fanno i Palestinesi, resisteremo". Non
so se sia vero o una semplice reazione emotiva all'idea di un'invasione.
Non ci sono segni di una preparazione alla guerra nelle strade di Baghdad. Fuori
della mia finestra le strade sono piene di macchine e di gente. La benzina costa
circa cinque centesimi di dollaro al gallone. I marciapiedi sono malandati,
i negozi miseri e dimessi, la merce in vendita ridotta all'essenziale. È
il Ramadan, e ristoranti e caffé chiudono nelle ore diurne. Il luogo
appare stanco. All'epoca della guerra del Golfo, l'Iraq ambiva a far parte dei
paesi economicamente sviluppati, adesso è chiaramente terzo mondo e in
difficoltà. Alcuni giorni fa abbiamo fatto visita alla sede irachena
del coordinatore ONU degli interventi umanitari. Il direttore ci ha detto: "Le
sanzioni paralizzano ogni singolo aspetto della società irachena".
C'è scarsità di tutto: cibo, acqua pulita, ambulanze, medicinali,
medici, insegnanti, trattori. Mi hanno mostrato la seguente dichiarazione rilasciata
da Denis Halliday, ex vice-segretario generale e coordinatore degli interventi
umanitari per l'Iraq: "Mi era stato richiesto di attuare una politica [in
Iraq] che soddisfa i criteri del genocidio: una politica deliberata che ha praticamente
ucciso ben più di un milione di individui, bambini e adulti... Ciò
che appare evidente è che il consiglio di sicurezza è attualmente
diventato incontrollabile, perché le sue azioni in questo paese compromettono
il suo proprio statuto, nonché la dichiarazione dei diritti dell'uomo
e la convenzione di Ginevra. La storia farà giustizia dei responsabili...
Siamo in procinto di distruggere un'intera società. È la semplice
e orribile verità".
Avevo letto degli effetti mortali delle sanzioni prima di venire in Iraq, ma
vederli con i miei occhi è un brutto colpo. So che nel mio paese c'è
chi ritiene responsabile Saddam: se si decidesse ad accogliere le risoluzioni
dell'Onu, le sanzioni sarebbero annullate. Certo, il governo iracheno deve essere
chiamato a rispondere di molte cose, ma non a spese dei bambini iracheni, non
di un solo capello sulla testa di uno solo di loro! Sono anche venuta a conoscenza
del fatto che, stando agli ispettori dell'Onu, la liquidazione delle armi per
la distruzione di massa detenute dall'Iraq era completa al 95-98% nel 1998,
quando gli Stati Uniti, preoccupati di perdere il diritto alle sanzioni che
gli assicuravano il controllo di questo paese, fecero pressioni sull'Onu affinché
ritirasse i suoi ispettori. Come molti altri nel mondo, sospetto che le motivazioni
americane nei confronti dell'Iraq non riguardino principalmente l'eliminazione
delle armi di distruzione di massa.
La guerra imminente si fa sentire anche dentro di me. La paura di un attacco
si manifesta in piccoli modi: la mia impazienza verso gli altri membri del gruppo,
la smania di avere più controllo sulle mie azioni, la frustrazione di
non sapere con chi posso parlare. Comprometterò il mio interlocutore
con questa conversazione? La camminata solitaria che voglio intraprendere è
una cosa giusta? È un rischio accettabile? Ho con me più medicine
di un ospedale! Cosa significa essere solidali con un popolo? Il nostro gruppo
si riunisce quasi ogni sera per discutere le nostre possibili risposte a un
attacco aereo, a un attacco da terra, o a un colpo di stato. I sentimenti sono
intensi e contrastanti. Io ho paura di essere inutile. Ma forse servire significa
semplicemente essere qui, condividere la sofferenza di un popolo aggredito dal
mio paese. Sono più convinta che mai che non è detto che debba
andare così, e che sta a noi cambiare il futuro.
In tutto questo brilla comunque una luce, che cancella i miei pensieri e le
mie ansie. Ogni mattina vado a lavorare in un orfanotrofio gestito dalle suore
missionarie della carità di Madre Teresa. Ospita circa venti bambini
e bambine affetti da grave paralisi cerebrale. Solo due sono in grado di dire
qualche parola, e alcuni non alzano neppure la testa. Ma tutti hanno occhi lucenti
e sorrisi bellissimi: di certo sono questi gli angeli di cui parlano tutti.
Passo tre ore tenendoli fra le braccia, massaggiandoli, cantando e giocando.
I loro sguardi non si distolgono mai dalla mia faccia. Si contorcono sul pavimento
per mettermi la testa in grembo. Sono completamente presenti, e lo sono anch'io.
Sono i soli momenti in cui non provo alcuna ambivalenza. Il mio posto è
questo. Li imbocco e li lavo. Loro mi fissano in volto. Questo sorriso è
tutto ciò che vogliono dal presente. I giocattoli vanno e vengono, ma
il volto di un adulto sorridente è il loro paradiso.
Spero che dove vivete ci siano opportunità di opporsi alla macchina di
guerra degli Stati Uniti. Nulla di ciò che facciamo è troppo poco,
e io parlo sempre di quegli americani e inglesi responsabili che si sforzano
di impedire la pioggia di bombe.
In
pace,
Rabia (Elizabeth Roberts)
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Volando nella zona interdetta al volo
Baghdad, 26 Novembre 2002
Segreti. Sotto
di me vedo strade, agglomerati di case fatte con mattoni di fango ed edifici
agricoli, tratti di terra coltivata. Quattro giorni dopo, tornando a Baghdad
per via terra, rivedo la stessa area da una prospettiva diversa. Mentre i chilometri
si succedono monotoni, guardo fisso dal finestrino del fuoristrada: per qualche
motivo imprecisato, la mia mente snocciola una serie di aggettivi che cominciano
per 'd': devastato, degradato, derelitto, desolato... Capanne di fango a una
stanza, bambini coi piedi scalzi, cani scheletrici a caccia di avanzi: i segreti
stereotipi della povertà ci sono tutti. Segreti perché li costeggiamo
frettolosamente in macchina, o li sorvoliamo in aereo scuotendo la testa rassegnati,
senza mai spezzare il guscio del loro segreto: cosa si prova a essere condannati
a non avere scelta.
Mentre l'aereo vira disegnando un ampio cerchio attorno a Basra, immagino come
dev'essere facile giocare a far fuori i minuscoli autocarri giocattolo là
sotto. Nel porto, due grandi scafi d'acciaio giacciono sull'acqua riversi su
un fianco. Due giorni più tardi, alcuni di noi raggiungono a sud il confine
con il Kuwait, fermandosi a un cimitero di veicoli lungo una delle tante "autostrade
della morte" dove gli iracheni in fuga dal Kuwait caddero vittime di una
"battuta al tacchino", per dirla con i piloti dei caccia. Carcasse
carbonizzate di autocarri, autobus, auto e carri armati sono sparpagliate lungo
un'area di parecchi acri. Ci dicono di non toccare nulla, perché gli
americani usavano proiettili all'uranio impoverito per perforare i rivestimenti
dei carri armati, e le polveri, diffuse nell'aria e nel suolo, ancora fanno
scattare i contatori geiger. Guardo lo scheletro di un autobus abbandonato sulla
sabbia, arrugginito, con mezzo tetto sfondato. Mi vengono in mente certe foto
di autobus israeliani sventrati dalle bombe, sporchi di sangue, l'aria piena
del pianto dei familiari delle vittime. Ma il pianto per i morti di questo autobus
è da lungo tempo caduto nel silenzio. Fisso attonito i pochi sedili superstiti,
le molle messe nudo che gettano ombre sinistre sul pavimento. Segreti.
Atterriamo incolumi. Guardo i passeggeri, uomini per lo più, che si salutano
con una stretta di mano, baciandosi sulle guancie, portandosi una mano al cuore.
Ricordo che una volta, all'aeroporto di Denver, notai un uomo, riconoscibile
come arabo all'aspetto, che si faceva strada fra la folla: pensavo come doveva
sentirsi a essere l'oggetto del generale malcelato sospetto. Ora mi trovo nella
sua posizione, viste le migliaia di uomini armati del mio paese pronti all'attacco
a 40 miglia da qui. Ma non percepisco odio da parte di questa gente. Quando
sorrido, faccio un cenno con la testa, e dico "A'salaam alleikum"
(la pace sia con te) rivolto a un estraneo, invariabilmente annuiscono e rispondono:
"Altrettanto, pace a te".
Il nostro primo pomeriggio a Basra lo passiamo all'ospedale pediatrico, il presidio
locale per l'oncologia infantile. Dai tempi della guerra del Golfo c'è
stato un drastico aumento di casi di leucemia, linfoma, cancro del seno, della
pelle e del polmone, per non parlare delle malattie da malnutrizione. Un certo
dott. Jamash ci riceve e ci descrive pazientemente lo scenario ormai familiare:
mancano farmaci, fiale per la chemioterapia, macchine per la radioterapia, denaro
per pagare medici e infermieri. "L'embargo economico ha distrutto tutto",
dice senza emozione apparente. Il dott. Jamash ci parla di un'allarmante crescita
di "casi anomali mai visti prima", deformità congenite, bambini
nati senza occhi, senza faccia, o con arti mancanti.
L'ospedale è squallido, malconcio, con le finestre e le pareti sudicie.
Mi ritrovo in una stanza insieme a perlomeno otto madri in nero che accudiscono
i loro bimbi malati. Comincio a scattare istantanee, mostrando loro il risultato
sul piccolo schermo della mia macchina fotografica digitale. Le donne ridono,
indicano la loro immagine e mi chiedono di fare altre foto. L'atmosfera diventa
allegra, i bambini malati con i faccini smunti sorridono, le vecchie nonne radunano
i familiari per un'altra istantanea.
Il mattino seguente alcuni di noi vanno a sud, vicino alla "strada della
morte", fino a Safwan, una cittadina polverosa sul confine col Kuwait dove
nel 1991 fu firmato il cessate il fuoco con gli americani. Rintracciamo la casa
di una certa famiglia di contadini, dove c'è un bambino che sappiamo
affetto da un cancro alla pelle. Era nato sei mesi prima della guerra del Golfo,
subito dopo la quale sono comparsi i primi sintomi del tumore. All'epoca i genitori
vivevano e lavoravano in una piccola fattoria vicino alla quale erano stati
colpiti molti carri iracheni con proiettili all'uranio impoverito. In questo
momento vorrei smettere di scrivere, vorrei evitare a voi e a me di ricordare,
di profanare il segreto custodito in un misero edificio con le pareti di fango
su una strada desolata di una remota cittadina, con la sua soglia ben spazzata,
con il pavimento della piccola stanza senza finestre ricoperta di stuoie di
palma, con il solitario orologio e il calendario appesi alla parete che segnano
il senso del tempo con sontuose immagini della grande moschea della Mecca, e
la sua targa sbreccata con su scritto in caratteri arabi "Che Allah benedica
Mohammed e la sua famiglia". Entriamo e ci sediamo lungo le pareti. Il
vano della porta si oscura della figura della nonna, rivestita di un abaya
(2) nero, che si prepara a far fronte all'inattesa invasione di stranieri,
sospingendo dentro il ragazzo con la mano.
Si chiama Naathn Massim. Indossa una sudicia tuta felpata con un berretto in
tinta con su scritto "Camps Fashion". Tiene la testa bassa, il mento
sul petto, tamponandosi con un fazzoletto appallottolato le piaghe aperte sul
volto. Il naso è mezzo mangiato, come pure gli occhi. Veniamo a sapere
che tre settimane fa è diventato completamente cieco. Naathn si mette
seduto accanto alla nonna, che risponde alle nostre domande. Il ragazzo è
stato visto dai medici a Safwan e Basra, ci dice, ma non c'è più
niente da fare. "Allah kareem", dice: "Dio provvede". Le
mani di Naathn passano dal tamponare il naso a scacciare lo sciame di mosche
che continua a posarglisi addosso. Neville, un religioso di 72 anni membro della
nostra missione di pace, comincia a piangere. Una voragine senza fondo di dolore
ci si apre dentro, dolore per il ragazzo, per la sua famiglia, il suo paese,
il nostro paese, per noi stessi. Se potessimo, ricacceremmo via il segreto che
abbiamo messo a nudo, lo sporco segreto della carne in putrefazione di un ragazzino
di undici anni, risultato finale di studiati attacchi e contrattacchi ordinati
da adulti in remote stanze ben illuminate.
Forse è solo questo che posso dire. Forse questo è il motivo per
cui sono venuto in Iraq, per testimoniare questo segreto. Forse questo è
il massimo che una missione di pace come la nostra può sperare di ottenere:
guardare in faccia per un attimo tutto ciò che si perde nella catastrofe
della violenza, e continuare a riconfermare l'impegno in favore della vita.
Quella notte, quattro di noi sono ospiti di una famiglia nel quartiere povero
di Basra, Jumariyah. Seduti sulla veranda prospiciente la strada polverosa,
dozzine di ragazzini ci si affollano intorno. Ho cominciato a cantare per loro,
e a insegnargli alcune battute da ripetere dopo di me. Sei o sette bambini,
all'incirca dell'età di Naathn, si aggrappano a me insistendo che continui
a cantare. Mi torna in mente una canzone che cantavo ai miei figli, "Gospel
Train". I bambini fanno festa e battono le mani al ritornello: " A
bordo piccolini, a bordo piccolini, a bordo piccolini, c'è posto per
mill'e più!". Il suono delle nostre canzoni sale verso il cielo
scuro, su nella no-fly zone, e oltre.
Elias Amidon
(2) NdT.: l'abaya è una tunica con maniche, lunga fino alla caviglia
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L'arte di fare i miracoli
Baghdad, 12 dicembre 2002
Torno a Baghdad
dopo un'assenza di due settimane, per portare testimonianza alla realtà
della gente irachena, per "esprimere solidarietà" con la loro
sofferenza. Ma oggi non mi sembra abbastanza. Non voglio limitarmi a portare
testimonianza, per loro voglio camminare sull'acqua, resuscitare i morti, moltiplicare
i pani e i pesci. Voglio un miracolo. Voglio che gli Stati Uniti non attacchino,
non facciano nuovamente ricorso al barbaro uso della violenza e della guerra
per raggiungere i loro fini. Voglio che gli americani continuino a insorgere
contro questa impresa così pericolosa. Voglio vedere mille donne e uomini
americani e inglesi percorrere le strade di Baghdad con fasce bianche al braccio
[in segno di lutto, N.d.T], con cartelli di protesta contro l'imminente aggressione
all'Iraq. Voglio un miracolo. Possiamo, solo per un attimo, lasciare da parte
i nostri appuntamenti, il nostro lavoro, i nostri impegni, per concentrare una
presenza visibile qui, per manifestare il nostro sostegno a un'alternativa nonviolenta?
L'altra sera l'ex presidente Jimmy Carter ha dichiarato, accettando il premio
Nobel per la pace: "Talvolta la guerra può essere un male necessario,
ma dobbiamo ricordare che è sempre un male".
In questo caso è un male che possiamo stroncare sul nascere, prima che
sfugga di mano. Non sono un ingenuo. Come la maggior parte di voi, ho passato
mesi a cercare di capire i reali motivi che spingono l'amministrazione Bush
a volere la guerra a tutti costi. Le ipotesi sono molte: il petrolio, il terrorismo,
la sicurezza di Israele, le armi di distruzione di massa, una scontro di civiltà,
ridisegnare i confini. Tutte queste motivazioni cedono di fronte a un'obbiettiva
valutazione dei fatti:
1. Possiamo contrattare
l'acquisto del petrolio di cui abbiamo bisogno.
2. Non ci sono prove convincenti di un coinvolgimento iracheno negli attentati
terroristici.
3. L'Iraq, con il suo patetico arsenale (se pure ne ha ancora uno) non sarà
mai in grado di competere con la potenza americana; inoltre, ci sono modi migliori
per contenere, ridurre o reprimere un'eventuale minaccia da parte sua.
4. In quest'area del globo, il paese che detiene armi di distruzione di massa
è Israele.
5. La guerra non prende di mira l'Islam: la politica americana si dice indifferente
alle questioni religiose, e ad ogni modo l'Iraq è (o perlomeno era, finché
non abbiamo tirato la corda), lo stato più laico del mondo arabo.
6. E non può riguardare questioni territoriali, dato che l'attuale frammentazione
del mondo arabo fa gioco agli interessi americani.
E allora?
Metti tutto insieme, e il risultato è più della somma delle sue
parti. A scuola lo chiamavamo imperialismo, quando studiavamo i grandi imperi
accentratori di Roma, degli Ottomani, del Portogallo, della Spagna e dell'Inghilterra.
Non potrebbe darsi che l'occupazione dell'Iraq sia la prossima mossa nell'ascesa
del massimo impero della storia? È questo l'obbiettivo del nostro paese
per il ventunesimo secolo? È qualcosa che siamo disposti ad accettare,
basta che il bottino raggiunga le nostre tavole e le nostre automobili? Mi rendo
conto di essere sotto pressione e troppo emotivo. Ma sono cresciuto nella convinzione
che il mio paese fosse il più grande difensore della libertà e
della democrazia. Provo sgomento per il cocente disinganno.
Forse i miei sentimenti risentono della nostra - mia e di Elias - esperienza
recente al convegno del movimento nonviolento globale per la pace (...)
La conferenza di Delhi si è aperta con uomini e donne che traducevano
ciascuno nella propria lingua il proverbio "il sentiero si fa camminando".
Magnifica prova di comprensione interculturale. La mia preferita è stata
la traduzione coreana: "Se camminiamo, e camminiamo, e camminiamo, la gente
la chiamerà strada". E perciò camminiamo. (...)
Dopo questo convegno, sono fermamente convinta che il nostro sogno di un mondo
diverso non sia impossibile. Vedo che ci si sta lavorando in migliaia di modi
al livello locale, e questo mi dà molta speranza. Ora dobbiamo imparare
come renderlo possibile su scala più vasta. Il compito dei nostri politici,
affaristi e diplomatici è chiedersi come possono servire il sogno della
gente. Tutto il resto ha già fallito: il paesaggio iracheno è
costellato dai resti di imperi polverizzati, la Mesopotamia, l'Assiria, Babilonia.
La natura effimera della volontà di dominio appare evidente (...)
Oggi non c'è problema più urgente che prevenire questa guerra.
Qui si riassume tutto: l'equilibrio geopolitico, la nostra risposta al degrado
ambientale, il possibile trionfo del fondamentalismo sulla tolleranza e la diversità,
una soluzione equa del conflitto in Israele/Palestina, il futuro economico per
miliardi di persone, la sicurezza degli americani in patria e all'estero.
Cosa sceglieremo? Io lavoro, e prego, per un miracolo. Vi prego, unite alla
mia la vostra preghiera e la vostra azione, in quelle forme che vi sono possibili.
In
pace,
Rabia (Elizabeth Roberts)
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Come passiamo le nostre giornate
18 dicembre 2002
Quasi ogni giorno
corre voce di un imminente attacco da parte degli Stati Uniti. Ancora una volta
una larga porzione di giornalisti sono stati invitati a lasciare il paese. Il
direttore del nostro albergo ha acquistato un generatore di corrente; cominciamo
a far scorta di alimenti secchi e acqua. Abbiamo perfino acquistato una bicicletta!
Ieri il dinaro iracheno è sceso di un altro 20%. Nel darci la notizia,
il nostro amico iracheno, Sitar, aveva gli occhi velati di lacrime. Nelle attuali
circostanze, non ce la fa più a mantenere la famiglia, malgrado i suoi
tre lavori. Il movimento di militari nel paese ha scoraggiato le uscite fuori
Baghdad. La stampa internazionale sembra ritenere che non ci sarà alcun
attacco, perlomeno per un mese o due, e due persone con cui ho parlato speravano
che ci fosse ancora un modo per scongiurare la guerra o rimandarla fino al prossimo
inverno. Dal nostro osservatorio, non c'è modo di sapere. Qualcun altro
lo sa?
A volte vedo noi tutti come voci che gridano nel deserto, letteralmente. E io
sono solo una Cassandra, di vedetta a un remoto avamposto del movimento contro
la guerra (ricorderete che Cassandra aveva ricevuto il dono di predire il futuro
e la condanna a non essere creduta: un'impotente profetessa di sventura).
Mentre i tamburi di guerra si fanno sentire più forte, è facile
dimenticare che in realtà stiamo facendo qualcosa di buono qui. Abbiamo
aperto un dialogo con il mondo dell'informazione in Iraq. Forniamo ai giornalisti
storie di casi umani significativi, li presentiamo alle famiglie e organizziamo
conferenze stampa presso impianti idrici, centrali elettriche e ospedali oncologici.
È importante rilevare che otteniamo molta più risonanza dalla
stampa europea che non dai nostri fratelli americani.
Le nostre fila si vanno ingrossando, con l'arrivo di altre delegazioni a breve
termine, ogni dieci giorni circa. Le vacanze hanno concesso un po' di tempo
libero agli americani. Ci sono anche delegazioni dal Canada, dall'Italia e dal
Giappone, sempre a breve termine, che collaborano con noi nell'organizzare speciali
cerimonie interreligiose, veglie a lume di candela, manifestazioni e altre azioni
creative per far presente i costi umani della guerra.
La nostra presenza a lungo termine rende più efficace la presenza di
queste altre delegazioni. Speriamo anche di dare un contributo significativo
agli sforzi dei pacifisti nel nostro paese, a cui inviamo articoli, storie e
messaggi di posta elettronica. Ma, come dicevo, siamo solo voci nel deserto?
Ogni giorno preghiamo che sempre più persone si rendano conto dei pericoli
di un attacco all'Iraq per il mondo intero: più terrorismo, più
violenza in Israele/Palestina, indebolimento delle Nazioni Unite, crescita dei
fondamentalismi di ogni tipo, più alto rischio di una guerra biologica
o nucleare, depressione su scala mondiale, crescita dell'arroganza e delle teorie
imperialistiche negli USA e, naturalmente, i contraccolpi imprevisti per tutti
e la perdita di tempo nel cercare di arginare i danni che non abbiamo saputo
prevenire. E che dire delle ripercussioni sul nostro spirito? Be', conoscete
già "la litania di Rabia"; prendetela come un promemoria dei
punti che potete citare per persuadere i vostri politici e pezzi grossi dell'economia
a dire NO alla guerra.
Le nostre giornate in questo avamposto sono occupate da visite alle famiglie,
alle scuole e a piccole botteghe. Facciamo più riunioni di quante vorremmo.
Però, visto che cresciamo di numero, sono necessarie per darci sostegno
reciproco ed evitare errori che potrebbero compromettere la missione o la nostra
sicurezza. (...)
Mentre scrivo, le ultime indiscrezioni danno gli Stati Uniti pronti a dichiarare
l'Iraq "in aperta violazione" della risoluzione ONU 1441. L'orizzonte
si rannuvola e io sono senza parole. Non è questo il mondo che sogniamo.
In
fede e umiltà,
Rabia (Elizabeth Roberts)
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Lettera a un combattente
22 dicembre 2002
Ho ricevuto di
recente il seguente messaggio di posta elettronica da un uomo che non conosco
personalmente, ma che deve aver letto una delle nostre lettere dall'Iraq: "Sarei
lieto di unirmi alla vostra delegazione di pace in Iraq, non appena le nostre
bombe avranno rispedito al paleolitico la sua brutale dittatura. Firmato: Terrence
Grave, Marina militare degli Stati Uniti".
Malgrado il tono aggressivo del messaggio e il cinismo che può averlo
ispirato, ho imparato a mie spese che spesso gli oppositori sono i nostri migliori
maestri. Forse c'è qualcosa da imparare, per me e per tutti noi, dalla
dura affermazione di Terrence. Pertanto colgo l'occasione di questo dibattito
aperto - chiamando voi che ricevete queste lettere a fare da assemblea di coscienza
- per tentare una risposta e capire che lezione se ne può trarre.
Caro Terrence,
sono lieto di apprendere che avresti interesse a unirti alla nostra delegazione
di pace: sei caldamente benvenuto. Quello che mi lascia perplesso sono le condizioni
che poni: non capisco come le nostre bombe potrebbero rispedire al paleolitico
questo regime senza fare strage di innocenti, e aprire ferite che innescherebbero
ancora più violenza in futuro, avvelenando la speranza stessa che porteresti
alla delegazione di pace.
So che la tua è la speranza implicita in molte guerre: creare le condizioni
per la pace uccidendo coloro che, a nostro modo di vedere, sono di ostacolo
alla pace. Nella tua lettera di una frase lo hai espresso in modo molto succinto.
E se fossi persuaso che questa tattica sia davvero in grado di creare la pace
e liberare il mondo dai dittatori brutali, mi unirei a te nel dire: bombardiamo!
Però non crea la pace, ma sofferenza, rabbia e morte, e getta i semi
di altre dittature, altre guerre, altre bombe.
Sei nella marina militare. Forse servi a bordo di una di quelle portaerei al
largo del Golfo che si apprestano a sferrare un attacco su questo paese. Immagina
cosa accade quando quelle snelle bombe e quei missili che vedi assicurati al
ventre dei velivoli vengono sganciati nel cielo sopra l'Iraq. Immagina cosa
accade quando colpiscono, ammettiamo pure, gli obbiettivi stabiliti, senza deviare
su zone abitate da civili come tanto spesso succede. Immagina di aver scritto
con la vernice su uno di quei missili "Saddam, torna al paleolitico!",
e che vada a colpire il ministero dell'informazione qui a Baghdad, di certo
una roccaforte della brutale dittatura.
Immagina quel momento. Di fronte all'entrata dell'edificio c'è un bambino
di otto anni. Si chiama Ahmed. Fa il lustrascarpe per aiutare la famiglia in
questi tempi duri. Potrebbe essere tuo figlio. Quegli occhi vivaci - te li puoi
immaginare. Il missile squarcia il lato nord dell'edificio, ed ecco che le immagini
della CNN che inquadrano il muso del missile si oscurano, e milioni di spettatori
americani provano un moto di orgoglio nazionale per l'eccezionale riuscita del
lancio, per la nostra tecnologia di precisione chirurgica. Ahmed, che sta seduto
all'entrata est sulla sua latta di vernice, alza gli occhi, giusto in tempo
per ricevere in piena faccia una pioggia di detriti. L'urto lo fa cadere all'indietro,
e fortunatamente perde i sensi quando batte la testa sul marciapiede. Lo ritrovano
un'ora dopo sotto un cumulo di macerie, e lo trasportano all'ospedale affollato
di vittime. È cieco, un lato della faccia è ustionato e un piede
manca all'appello. Ma in qualche modo sopravvive, un'esistenza mutilata, che
lo riporta più indietro del paleolitico. Dopo qualche anno lo potresti
incontrare per le strade di Baghdad, quando verrai per la delegazione di pace.
Lascia qualche spicciolo nel suo bicchiere di carta.
Terrence, puoi sentire la mia amarezza, e ti chiedo di perdonarmi. Ho vissuto
per quasi sessant'anni, e per tutto questo tempo il mio paese, il mio glorioso
antico paese i cui principi ispiratori condivido sinceramente, ha perseguito
politiche estere basate più sulla sfiducia, sul dominio e sulla violenza
che sull'intelligenza o la gentilezza. La nostra nazione detiene la supremazia
per la sua potenza militare, ma detiene anche quella morale? Sono cresciuto
credendo che il nostro paese si battesse per la "libertà e la giustizia
per tutti". Chiedi a chi vuoi: è questa l'immagine che nel mondo
si ha degli Stati Uniti, nella stragrande maggioranza dei casi?
Lo so che la risposta d'obbligo ai casi come Ahmed è che si tratta degli
incresciosi danni collaterali di una guerra necessaria che a conti fatti salverà
molte vite. Interrogata circa i 500.000 bambini che sono morti, stando alle
stime dell'ONU, in conseguenza delle sanzioni contro l'Iraq, l'ex segretario
di stato Madeleine Albright rispose come è ormai noto: "Era il prezzo
da pagare". Che assurdo calcolo è mai questo? Cinquecentomila Ahmed!
Non è un genocidio in piena regola? C'è da meravigliarsi che la
gente di qui consideri gli Stati Uniti come il "brutale dittatore"
delle loro esistenze?
La notte scorsa abbiamo tenuto una veglia a lume di candela presso un impianto
elettrico qui a Baghdad. Eravamo circa sessanta, ciascuno con una candela in
mano, i volti ingentiliti dal tenue bagliore. Sembrava una processione natalizia.
I nostri tassisti si sono uniti a noi, come pure i lavoratori dell'impianto,
uomini baffuti che reggevano le candeline come bambini, con gli occhi fissi
nel buio. Accanto a me c'era una madre irachena con i suoi tre figli. Si chiama
Amara. Ha dato alla luce il primo durante il bombardamento di Baghdad nel 1991.
La stampa le si faceva attorno piazzandole almeno una dozzina di microfoni davanti,
mentre lei col suo inglese stentato diceva: "Vi prego, dite al governo
americano, vi prego, niente più bombe. Niente più bombe. Vogliamo
vivere in pace".
Terrence, non mi aspetto di farti cambiare idea con queste poche parole, ma
sono grato dell'occasione che mi dà il tuo messaggio per esprimere quello
che provo. Sono venuto in Iraq per dare voce a quelli come Ahmed e come Amara,
o se non altro per imprimere quei volti nelle coscienze di tutti, perché
possiamo renderci conto che sono persone in carne e ossa le cui vite sono preziose
quanto le nostre. Io credo che tu, in quanto combattente, e tutti i tuoi colleghi
militari insieme alle donne e agli uomini del nostro paese, dobbiate tenerlo
sempre presente nella vostra mente e nel vostro cuore, quale che sia la scelta
- di pace o di guerra - che faremo.
Potrai dire che è un nobile sentimento e che in fondo lo condividi, ma
che non è adeguato per fare fronte al male. Credo che questo sia il punto
di maggiore disaccordo fra noi: non il comune desiderio di pace, ma i mezzi
per gettare i semi di una pace autentica. Tu dici che i semi sono le bombe.
Io dico che ci abbiamo provato, e il raccolto ci ha sempre deluso.
E se invece di finanziare altre bombe i bravi cittadini della nostra ricca nazione
decidessero di destinare, faccio per dire, un terzo della nostra enorme spesa
militare (circa centoventi milardi di dollari all'anno) alla lotta contro l'AIDS
in Africa, a fornire acqua pulita e cibo sufficiente ai bambini del mondo e
alla fondazione di scuole, università e ospedali in varie parti del pianeta?
Non sarebbe forse una base più stabile per la sicurezza nazionale? E
se offrissimo di finanziare i progetti dell'ONU? E se promuovessimo scambi fra
studenti e cittadini di tutti i paesi, così che l'incontro personale
faccia svanire la paura della diversità? E se smettessimo di inondare
il mondo con armi pericolose, e lavorassimo attraverso l'ONU e altre agenzie
internazionali per eliminare le armi di distruzione di massa dagli arsenali
di tutti i paesi? E se appoggiassimo in tutti i modi possibili la Dichiarazione
universale dei diritti dell'uomo, la Carta della terra, e tutte le risoluzioni
dell'ONU? E se invece di dominare il mondo con la paura lo ispirassimo con la
nostra iniziativa?
Azioni come queste farebbero di più per garantire la nostra sicurezza
di ogni guerra che potremmo tentare. Certo, ci sarebbero ancora prepotenti e
dittatori da tenere a bada e armi da smantellare. Noi, di concerto con la grande
maggioranza delle nazioni mondiali, affronteremmo questi problemi con tutti
gli strumenti diplomatici e non violenti disponibili alle nostre forze congiunte.
Così facendo, avremmo contribuito a trasformare l'intero contesto in
cui la comunità delle nazioni opera per il bene comune. Diventeremmo
l'amico, il buon vicino, dei popoli del mondo. Certamente vale la pena di pagare
il prezzo.
Cordiali
saluti, in pace
Elias Amidon
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Natale a Baghdad
Baghdad, 25 dicembre 2002
Questa è una lettera da parte di tutti e due, l'ultima, per ora, dall'Iraq.
Dopo due mesi dal nostro arrivo abbiamo deciso di tornare negli Stati Uniti
per contribuire lì agli sforzi di chi nel nostro paese si adopera per
fermare la corsa alla guerra.
Non è stata una decisione facile. Anche adesso ci chiediamo se sia la
mossa giusta. Abbiamo semplicemente paura di essere coinvolti nello scontro?
Prendiamo i nostri figli come scusa per evitare di condividere la sofferenza
e il rischio mortale che la guerra comporterebbe?
Un gruppetto della nostra delegazione ha deciso di restare per tutta la durata
della guerra, se dovesse accadere. Amiamo e ammiriamo queste persone. C'è
Charlie, settantadue anni, già cappellano militare in Vietnam, insignito
dal Congresso di una medaglia al valore per aver tratto in salvo ventidue feriti
durante uno scontro a fuoco. In seguito ha restituito la medaglia, e la relativa
pensione, per protestare contro la politica USA in Sud America. È un
uomo alto, dalla voce pacata, che dice: "Immagino che il mio compito sia
andare in prima linea e vedere cosa Dio vuole da me. La mia vita e la mia morte
sono nelle Sue mani". C'è Cynthia, anche lei sulla settantina, una
bibliotecaria in pensione dallo stato di New York, che cita dai classici e dai
racconti per ragazzi, e che non farebbe male a nessuno. C'è Kathy, l'ispiratrice
della delegazione per la pace, che vuole condividere i rischi degli iracheni
e dimostrare che non saranno abbandonati nell'ora del bisogno. C'è Michael,
un irlandese di trentatré anni con un sorriso luminoso, che semplicemente
sente che questo è il posto migliore dove stare per scongiurare la guerra.
"Non abbiamo il diritto di rinunciare alla pace", ci ricorda. Gli
altri membri del gruppo "degli irriducibili" la pensa allo stesso
modo.
Per quanto ci riguarda, i motivi principali che ci spingono a tornare negli
Stati Uniti sono due. Il primo riguarda i nostri figli. Non ci sembra giusto
affrontare un rischio così elevato senza il loro consenso. Potremmo ancora
chiederglielo, ma finora non lo abbiamo fatto.
In secondo luogo, a malincuore ci siamo convinti che al momento siamo più
utili in America. Tutti quelli che si oppongono alla guerra devono uscire allo
scoperto e far valere il proprio diritto: "NON NEL NOSTRO NOME!".
La posta in gioco è troppo alta. Adesso è il momento di portare
il messaggio contro la guerra sui gradini della Casa bianca e del Congresso,
e dovunque e comunque possiamo. Le prossime sei settimane sono di importanza
cruciale. Una volta negli Stati Uniti, dedicheremo pressoché tutte le
nostre energie a questo lavoro. Parleremo nelle chiese, nelle università,
ai raduni, alla radio, alla televisione, con membri del congresso e via dicendo.
Avendo passato gli ultimi due mesi in Iraq, forse riceveremo attenzione. Se
siete in grado di aiutarci offrendo contatti o spazi per il nostro intervento
ne saremo molto grati. Siamo disponibili a viaggiare nel caso di un pubblico
adeguato.
Speriamo di essere di aiuto in tutti i modi possibili alle esistenti azioni
per la pace. La marcia a Washington in programma per il 18 gennaio potrebbe
innescare un'onda lunga nell'opposizione contro il militarismo nel nostro paese.
Potete intervenire? Inondiamo Washington con un milione di persone! E non solo
per la giornata, restiamo! Un milione di noi per le strade! Paralizziamo Washington!
Potrebbe essere il solo modo di fermare la guerra imminente: disobbedienza civile
non violenta di massa.
Vogliamo riprenderci il nostro paese, salvarlo dalla china pericolosa di un
imperialismo ignorante. Un giornalista russo ha domandato a una donna della
nostra delegazione se aveva paura. "Di morire?", ha risposto, "Un
po'. Ma ho più paura del mio paese. Ho paura di quello che sta diventando
e di cosa sta succedendo alla sua anima".
Siamo venuti qui per essere testimoni della realtà del popolo iracheno
e per condividere la loro posizione vulnerabile. Abbiamo compreso qualcosa in
più e abbiamo visto tanta sofferenza e tanto amore. Mentre gli ispettori
delle Nazioni Unite cercavano le armi, noi abbiamo cercato segni di gentilezza,
amore pace: e li abbiamo trovati.
L'altro aspetto dell'essere testimoni è attestare la verità di
cui abbiamo fatto esperienza diretta. Il nostro rientro negli USA ci permette
di farlo: dire la verità al potere. Condividere quello che abbiamo imparato.
Contribuire a gettare un po' più di luce sull'oscurità del pregiudizio
che in questo momento ottenebra il nostro governo.
C'è anche l'idea di inviare in Iraq un'ultima, più ampia delegazione
(75-100 persone) per dieci giorni (dal 18 al 28 gennaio). Questo viaggio non
implicherà visite a ospedali, scuole, agenzie, o ad altre città
come nel caso di delegazioni precedenti. Il suo scopo sarà piuttosto
di costituire una presenza spirituale, una presenza orante, a Baghdad, come
appello contro la guerra. Per informazioni, contattate Kathy o Jeff al seguente
indirizzo: info@vitw.org
Ieri sera abbiamo
partecipato a una veglia per la vigilia di Natale nella piccola chiesa parrocchiale
di St. Raphael. Il sacerdote, Padre Vincent, ha detto che eravamo caldamente
benvenuti, anche se (gli abbiamo spiegato) probabilmente avremmo attirato una
folla di giornalisti. Abbiamo montato uno striscione sullo spazio antistante
la chiesa con su scritto, in arabo e inglese: "Che sia pace sulla terra".
Con le candele in mano, e intonando canti natalizi, abbiamo ricevuto una folla
di operatori televisivi di CNN, BBC, NBC, ABC, Reuters e di emittenti francesi
e russe. È comparso perfino il nunzio apostolico, che ha celebrato la
messa solenne. A un certo punto le telecamere hanno inquadrato Rabia, e le hanno
chiesto perché era lì.
Rabia ha risposto: "Questo è il momento più buio dell'anno.
È il momento in cui la gente si riunisce a pregare perché torni
la luce, e perché lo spirito di Cristo nasca dentro di noi. Qui in Iraq,
oggi, c'è la doppia oscurità della minaccia di guerra. Perciò
siamo venuti a pregare perché torni la luce, nel mondo e nei nostri governanti.
Perché il Cristo della pace nasca davvero".
Elias
Amidon
Rabia (Elizabeth Roberts)
Traduzione
di Letizia Baglioni
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Proprio mentre stavamo preparando le pellicole per la tipografia abbiamo ricevuto
una nuova Lettera da Bagdad, dove Elias e Rabia sono tornati.
Per il futuro ci impegnamo a tradurre tutte le lettere che continueremo a ricevere
e a diffonderle a tutti coloro che ce ne faranno richiesta.
Se avessi ali per volare...
Baghdad, 9 febbraio 2003
Stamani mi sono svegliato alle cinque e mezza per recarmi al quartier generale
dell'ONU alla periferia di Baghdad con il mio amico iracheno Mohamed, autista
e assistente tutto fare. Lui e io abbiamo passato questi ultimi giorni ad allestire
un campo per la nostra delegazione di pace sulla strada dirimpetto all'edificio
dell'ONU. Ci eravamo dati appuntamento con gli altri membri della delegazione
alle sette e mezza, in tempo per salutare gli ispettori delle Nazioni Unite
che uscivano in servizio. Questa è anche l'ora ideale per richiamare
l'attenzione della stampa internazionale, presente sul posto ogni mattina.
Abbiamo preparato uno striscione lungo una dozzina di metri da sospendere fra due palme sulla nostra tenda, la stessa dove due mesi fa abbiamo tenuto una conferenza stampa in occasione della visita di Sean Penn. La scritta, composta in bei caratteri, diceva in arabo e inglese: "SI all'ispezione, NO all'invasione". Mohammed si è messo fra i denti un capo della corda assicurato allo striscione e si è arrampicato su per il tronco. Impresa non facile. Mohamed ha cinquantatré anni ed è rimasto ferito gravemente durante la guerra con l'Iran. Dopo aver avvolto la corda attorno all'albero, me l'ha rilanciata e io mi sono messo a tirare per issare lo striscione e tenerlo teso.
Difficilmente dimenticherò
quel momento. Eccoci qui: due uomini con i capelli bianchi - un iracheno e un
americano - di cui uno abbarbicato al tronco di un albero, a tirare con tutte
le nostre forze per issare questo striscione col suo appello alla pace alle
prime luci del mattino. Era al tempo stesso qualcosa di assurdo e di splendido:
splendido perché, mentre i nostri rispettivi paesi si fissano in cagnesco,
stavamo qui come due allegri fratelli a montare tende e appendere bandiere;
assurdo, perché era un attimo così piccolo, insignificante, nella
spaventosa tempesta politica che coinvolge noi e i nostri concittadini.
Più tardi sono arrivate alcune troupe televisive a intervistare la delegazione.
Alla Reuters ho dichiarato che la nostra presenza voleva essere un appello alla
comunità delle nazioni in favore della prosecuzione regolare delle ispezioni,
e che un'invasione americana avrebbe ucciso innumerevoli civili iracheni come
quelli che si vedevano nelle foto appese da un capo all'altro della nostra tenda.
La telecamera ha fatto una panoramica dei volti ritratti nelle fotografie: bambini,
madri, vecchi zii, lavoratori, gente comune. Ciascuno di loro ha un nome. Ciascuno
di loro respira in questo mondo proprio come noi, ciascuno ha una miracolosa
soggettività come la nostra, unica e degna. Quelli di noi che sono qui
con la delegazione di pace si ostinano a credere che se i fautori della guerra
riuscissero a vedere la vera natura delle persone che soffriranno le atrocità
di questo conflitto, tornerebbero semplicemente sui loro passi. Che altro potrebbero
fare?
Ieri, girando in
macchina per la città, fermi a un ingorgo, mi metto a osservare un giovane
soldato iracheno che si intrattiene accanto al carretto di un ambulante, indeciso
se comperare o no un certo paio di calzini. Li prende in mano, li distende,
li rimette giù, li riprende, e ascolta il venditore che lo incoraggia
a comprare. Guardo la sua faccia mentre cerca di decidersi. Non ha più
anni di mio figlio, e ha la sua stessa dolcezza. Quando la macchina riparte,
ho gli occhi pieni di lacrime.
Devo ammettere che nelle pause fra la tristezza e la tenerezza che provo in
questi giorni mi sorprendo ad arrabbiarmi. Non è un sentimento di cui
prendo atto volentieri - so che la rabbia può innescare la violenza -
ma la scelleratezza della crudeltà che sta per abbattersi su questa gente
è quasi impossibile da tollerare. Ieri il segretario alla difesa Rumsfeld
ha dichiarato di fronte a un pubblico di militari che la guerra potrebbe richiedere
sei giorni o forse sei settimane, ma certamente non più di sei mesi.
Sei mesi! Riuscite a immaginare gli effetti di sei mesi di bombardamenti USA
sulla vita di ogni singolo abitante di questo paese?
Cari amici che mi leggete, vi prego, sabato prossimo 15 febbraio uscite dalle vostre case, o da dove vi trovate, e unitevi a una delle dimostrazioni programmate in tante città del mondo per dire NO a questa guerra! Milioni di persone scenderanno in piazza! Unitevi a loro! Fate sentire la vostra voce e la vostra presenza. Se per caso pensate "Un corpo in più, che differenza può fare?", ricordate che fa TUTTA la differenza! Date ai capi politici del mondo il coraggio di resistere alle strumentalizzazioni e alle pressioni americane che spingono alla guerra.
Qui a Baghdad nel corso della settimana terremo una veglia ogni mattina davanti alla sede dell'ONU. Ogni mattina alle undici ci sposteremo per raggiungere vari siti vulnerabili dell'infrastruttura civile (impianti idrici, centrali elettriche, ospedali, scuole, rifugi antiaerei) che sono stati obbiettivi dei bombardamenti del '91. In ciascuno di questi luoghi appenderemo uno striscione con su scritto: "Bombardare questo luogo è un crimine di guerra in base all'art. 54 della Convenzione di Ginevra".
Anche gli altri
membri della nostra delegazione stanno contattando le rispettive comunità
invitandole a partecipare alle manifestazioni del 15 febbraio. Inoltre, incoraggiamo
tutti a recarsi nel corso della settimana presso la sede di analoghe infrastrutture
civili nella propria città - ospedali, impianti idrici, centrali elettriche,
scuole - e appendere striscioni con su scritto: "Bombardare strutture come
questa in Iraq è un crimine di guerra, art. 54 della Convenzione di Ginevra".
La nostra speranza è che azioni come queste richiamino l'attenzione sulle
uccisioni indiscriminate perpetrate a nostro nome. Nel corso della guerra del
'91 in Iraq furono bombardate ventotto scuole.
Alcuni giorni fa ci siamo incontrati con Amira, un'americana di origine irachena che guida una delegazione in questo paese. Era appena tornata da una visita alla sua famiglia, che abita nelle vicinanze di Babilonia. Per un po' ha conversato, poi è scoppiata a piangere. Fra i singhiozzi ci ha detto: "Potrei non rivedere mai più la mia famiglia... sarà una terribile tragedia... la mia famiglia, tutti quanti in questo paese, non fanno che parlare di come sopravvivere... come proteggere i propri figli... l'unica cosa che li fa andare avanti è la fede... quello che hanno nel cuore... mentre si preparano al disastro".
Mentre scrivevo
l'ultima frase, pensavo che questa lettera si sarebbe conclusa lì. Ma,
dato che è domenica sera, Rabia e io abbiamo deciso di unirci ad altri
membri della delegazione di pace che stavano andando ad assistere alla messa,
celebrata in inglese nella chiesa di St. Raphael, a meno di due chilometri da
qui. Ci siamo andati a piedi. Il fiume Tigri rifletteva la morbida luce del
tramonto. Padre Vincent, il sacerdote, ha parlato nella sua omelia di paura
e di fede.
Poi ci ha invitato a intonare questo canto:
O Dio, ti prego, ascolta il mio grido e rispondimi. Ho paura di ciò che il futuro tiene in serbo per me. Lasciami nascondere all'ombra delle tue ali. Se avessi ali per volare, fuggirei, Signore. Volerei più lontano che posso per trovare un po' di serenità. Lasciami nascondere all'ombra delle tue ali. Posso sopravvivere a tutto questo, se tu sei con me. La mia vita è qui, la mia vita è adesso, e devo andare avanti. Lasciami nascondere all'ombra delle tue ali.
Elias
Amidon
Traduzione
di Letizia Baglioni