Affrontare la morte insieme, umanamente

di Beatrice Taboga


"Il senso della vita sta nel fatto che finisce"
Franz Kafka

Si è svolto a Mestre un corso di formazione per l'assistenza e l'accompagnamento dei malati terminali e dei loro familiari, che ha visto la partecipazione di sedici persone "addette all'assistenza", condotto da Livia Aite Crozzoli e Beatrice Taboga.

"Nei momenti fondamentali della nostra vita, così come davanti a chi sta morendo, saremo solo noi stessi, senza appunti, indicazioni, sostegno"
Frank Ostaseski

Il corso di formazione ha come obiettivo fondamentale l'approfondimento del confronto col processo del morire e del lutto e lo sviluppo di competenze comunicative e relazionali di coloro che già operano prendendosi cura di chi sta morendo e dei suoi familiari.
In ambito socio-sanitario è stata evidenziata la necessità di una forma di assistenza e di cura che si occupi della totalità della persona malata, quindi dei suoi bisogni fisici, relazionali, spirituali, psicologici e del suo contesto familiare.
In queste situazioni estreme gli operatori sono sottoposti ad un forte carico emozionale e a particolari problematiche comunicative e relazionali, che vanno riconosciute ed approfondite.
Per salvaguardare il benessere degli operatori e prevenire il loro stress fisico e psichico (il fenomeno del burn-out) è necessaria una presa di coscienza delle implicazioni personali che queste esperienze suscitano ed una riflessione sul processo del morire e del lutto.

Affrontare queste tematiche costituisce la rottura di un "tabù" sociale fortemente radicato e possiede una carica innovativa rispetto all'assetto culturale dominante che emargina la morte e il morire.
La struttura sanitaria spesso risulta impossibilitata o inadeguata ad aiutare sia i malati sia i familiari, che non trovano il sostegno ed il supporto necessario; ma quando non c'è più nulla da fare per curare la malattia, c'è ancora molto da fare per prendersi cura della persona.
Mentre si cerca sempre di sfuggire all'incontro con la realtà della morte, questa esperienza cerca proprio di rompere il silenzio e la solitudine in cui spesso la si vive.

Il corso di formazione è stato strutturato in tre week-end per un totale di 36 ore; si utilizzano metodologie didattiche che consentono di apprendere dall'esperienza vissuta e condivisa con gli altri partecipanti con l'obiettivo del pieno coinvolgimento dei partecipanti, soggetti attivi e dinamici del processo formativo.

"Per stare accanto a chi sta morendo è importante essere in grado di sviluppare la nostra capacità di presenza, di accoglienza e di contatto.
La prima condizione è aver fatto un buon lavoro su di sé, avendo cominciato a riflettere sulla nostra propria mortalità. Se questo lavoro non è stato fatto è molto difficile accompagnare un morente.
La seconda condizione è essere consapevoli di ciò che ci tocca, ci commuove, ed essere disposti a condividere.
La terza condizione è essere consapevoli delle nostre paure (del contagio emozionale, del rifiuto, della rabbia dell'altro, dell'erotizzazione dei gesti, o altro ancora) e dei nostri meccanismi di difesa.
La quarta condizione è aver fiducia nel malato e nel processo che è in atto. Dobbiamo credere che il nostro corpo saprà morire, così come ha saputo nascere.
Per fare questo lavoro è importante che noi siamo capaci di sviluppare la nostra capacità di presenza, di accoglienza e di contatto
".
Marie De Hennezel

Primo week end
Nel corso del primo week-end si sono condivise le motivazioni che hanno spinto le persone a decidere di partecipare ad un corso di formazione per l'assistenza ai malati terminali e le difficoltà che le partecipanti al corso avevano già incontrato nel loro lavoro.
"Formarsi" per imparare ad aver cura di altri esseri umani presuppone, per poterlo fare bene, di conoscere meglio se stessi, imparando ad accettarci con tutti i nostri limiti, manchevolezze, pregi e ricchezze.
La prima parte del lavoro ha permesso alle partecipanti di sperimentare, superando con relativa facilità le iniziali diffidenze e resistenze, il confronto e lo scambio all'interno di un gruppo esperienziale, che si struttura come un manto contenitivo e protettivo, aiutando a lasciar emergere emozioni, affetti, pensieri e sentimenti, individuando le proprie paure e le difese abituali, cercando insieme di comprenderle per superarle.
Si sono esplorate collettivamente le nostre paure della malattia, della morte, della sofferenza, del cambiamento e della perdita, cercando di sviluppare un ascolto più consapevole dei vissuti del nostro mondo interno, diventando più intimi con le nostre sofferenze, riconoscendo le emozioni e gli stati mentali che le accompagnano, cercando di comprendere chi e che cosa ci ha sostenuti nei momenti di dolore, aiutandoci ad uscirne, e che cosa e chi invece non ci ha aiutati.

Più e più volte nel corso dei seminari è stata riproposto ed insegnato come diventare consapevoli del proprio respiro naturale, come lasciarlo fluire spontaneamente, riscoprendolo come strumento indispensabile per ritrovare la semplicità e la naturalezza che abita in ogni essere umano e che sempre si accompagna a delicatezza e gentilezza.
Come rientrare in contatto proprio con la delicatezza e la gentilezza e come iniziare a spogliarci delle nostre rigidità e difese è diventato il filo conduttore di tutto il lavoro fatto insieme.

Si è lavorato, prima individualmente, analizzando i lutti e le perdite, le separazioni ed i cambiamenti radicali, che ognuno di loro aveva subito o inflitto, cercando di ricollegarsi con le emozioni e gli stati mentali vissuti, ri/sentendo e riflettendo. È stata quindi proposta una condivisione in piccoli gruppi, confrontando esperienze diverse e i diversi vissuti, invitando i partecipanti ad aprirsi reciprocamente, sperimentando un contatto "intimo" con un'altra persona, sentendo come ogni volta che ognuno di noi si apre, aiuta anche l'altro ad aprirsi.

Si è cercato di comprendere come ognuno di noi si pone davanti alla sofferenza ed alla disperazione, sperimentando come stare accanto, come accompagnare, senza essere invadenti, senza essere invasi, senza identificarci, ma anche senza perderci, imparando cioè a trovare la giusta distanza. Il lavoro comune ha fatto emergere la vulnerabilità di ognuno, ma anche la capacità di lasciar andare le difese, lasciando emergere l'autenticità di ogni essere umano, sperimentando un contatto intimo, profondo e compassionevole con l'altro e scoprendo un'intima somiglianza.

"Benché ogni uomo cerchi di posporre a suo modo il problema della morte, sia quella personale, che dei familiari e degli amici, fino a quando non sia costretto ad affrontarli, egli potrà cambiare le cose solo se comincerà a prendere coscienza della sua morte personale. Questo non si può fare a livello di massa: deve essere fatto da ogni essere umano individualmente"
Elisabeth Kubler Ross

È stata poi proposta una sperimentazione della propria fine, immaginandola durante la "meditazione della propria morte" (il testo della meditazione deriva dalla tradizione indiana, marana sati, consapevolezza della morte, poi assorbita dalla tradizione buddhista).
Naturalmente, l'esperienza vissuta è stata poi condivisa in piccoli gruppi, che consentono un contatto più profondo. Le persone si possono così rispecchiare nelle paure, nelle angosce, nei problemi, nei limiti, nelle sofferenze, ma anche nel bisogno di "ritrovarsi stando con gli altri", di "accedere alle proprie emozioni", di "non banalizzare più la propria vita", cercando di "conoscere e farsi conoscere integralmente", "senza sprecare neppure un istante del dono prezioso della vita".
Si comprendono così le piccole morti quotidiane, cioè i cambiamenti difficili, le esperienze di dolore che ci si propongono ogni giorno e ci fanno sentire e presagire la nostra propria morte, invitandoci anche a fare i conti con i nostri limiti, la nostra impotenza, la nostra finitezza, appunto, la finitezza della nostra esistenza.

Durante la condivisione si apprende che ci sono modi differenti per contenere e modificare le proprie difficoltà e le proprie paure, per dare loro un senso e trasformarle in atti ed azioni vitali. Si scopre attraverso l'esperienza dell'altro che "rimanere attaccati al passato", ai dolori ed ai traumi vissuti "pieni di risentimento" o di "sensi di colpa", impedisce il proprio processo di crescita, oppure che "trattenere egoisticamente qualcuno che sta morendo" o "rimanere legati a qualcuno che è morto", diventa un impedimento alla propria e all'altrui trasformazione.

Tale esperienza di approfondimento sulla propria morte risulta propedeutica per affrontare un rapporto con le persone malate, sia esso un rapporto d'amicizia, di volontariato o da operatore ad assistito. Conoscere in prima persona i propri vissuti, bisogni, reazioni di fronte alla propria morte aiuta ad avvicinarsi alle persone che, a causa della malattia o della vecchiaia, si stanno accostando alla fine della propria vita: per questo, quando l'obiettivo del gruppo è quello dell'apprendimento di metodiche di accudimento e di accompagnamento dei malati terminali, si propone sempre un lavoro preliminare di confronto con la propria morte.

Partendo dalle difficoltà che ognuna delle partecipanti aveva vissuto nella vita o nel lavoro davanti ad esperienze di malattia, sofferenza, morte, si è proposto di cercare di sentire qual è la natura della paura, per cominciare a sviluppare l'intuizione dell'esperienza, senza lasciarsi intrappolare dalla stessa.

"Non potete aiutare i morenti finché non vi siete resi conto che la loro paura vi turba e porta a galla i vostri timori più angoscianti. Lavorare con loro è come guardare nello specchio limpido e impietoso della nostra stessa realtà, dove si può veder riflessa la nuda faccia del nostro panico e del nostro terrore del dolore. Se volete imparare ad aiutare chi muore, dovete esaminare ogni vostra reazione. Guardare apertamente le vostre paure vi aiuterà inoltre nel cammino verso la maturità"
Sogyal Rimpoche

Altro nucleo centrale dei lavori è stato il tema del "perdono" (donare nuovamente), pratica essenziale da vivere e da sperimentare perché guarisce ciò che divide, libera dalla paura e dal risentimento che sono nel cuore e che ci fanno sentire in conflitto con noi stessi, con gli altri o col mondo che ci circonda.
Il perdono serve a lasciar andare vecchi dolori, che causano solo maggiore sofferenza. Ogni partecipante è stata invitata a riscoprire quali i sentimenti, la rabbia, i rancori, che ancora ci abitano e ci fanno soffrire, imparando a distinguere tra le lezioni imparate e tutte le tensioni mentali, i dolori fisici e le sofferenze emotive che derivano dal trattenere e dal non lasciar andare. Tutto questo perché per assistere qualcuno nel territorio del perdono, dobbiamo prima provarlo su di noi, costruendoci gradualmente la nostra capacità di perdonare, senza forzarsi, rispettando i tempi del perdono, nostro ed altri, comprendendo le resistenze, le difficoltà ed accettando con un atteggiamento mentale non giudicante le scelte diverse da quelle che noi potremmo fare.

Quando si propone questa pratica spesso ciò che emerge prima è più rabbia che gentilezza. Il perdono non è un mezzo per reprimere queste emozioni, anzi, le facilita, dando spazio a sentimenti forti di odio, paura, giudizio. All'inizio ci si sente più chiusi che aperti, poi si entra in contatto con la sofferenza che sottende questo sentire, esplorandone gli aspetti che ci mettono sulla difensiva.

Il perdono ci permette di far incontrare la sofferenza con la compassione. È emerso chiaramente come spesso si confonde il perdonare con il condonare l'azione di una persona. Ma il perdono non giustifica in alcun modo azioni dannose: si perdona la persona, non l'azione.
La paura ed il condizionamento sono emersi nel pensare di non essere degni di ricevere il perdono, mentre emerge spesso che non si perdona perché si vuole che l'altra persona paghi per ciò che ha commesso, perché crediamo che la giustizia sia un pre-requisito e vogliamo che l'altro ci chieda scusa per poterlo perdonare. Altre volte, e questo emerge spesso nel corso di questi seminari, non perdoniamo perché l'attaccamento al dolore ci è così familiare, che è come se desse un senso alle nostre vite e non riusciamo ad immaginarci senza di esso.
È stata fatta seguire una pratica a coppie di meditazione sulla compassione, provando a lasciar emergere questa qualità del cuore, davanti alla sofferenza nostra ed altrui.
Solo con questa accresciuta sensibilità si può meglio comprendere chi sta soffrendo e si sta avvicinando alla fine della propria vita.


Secondo week end
Come possiamo aiutare e cosa abbiamo da imparare da chi sta morendo è stato il tema del secondo incontro di formazione, nel corso del quale si è cercato di esplorare quali sono i bisogni, le resistenze, i conflitti, le paure, che attraversano i malati ed i loro familiari.

A partire da un'esperienza diretta, si sono analizzate le fasi psicologiche dell'esperienza del morire e si sono sperimentate delle modalità per entrare in relazione coi malati e con i loro familiari.
Molti degli esercizi e delle esperienze di gruppo proposti hanno cercato di sviluppare una capacità di ascolto empatico (capacità di comprendere l'esperienza che l'altro sta facendo) e di attenzione consapevole per saper essere più presenti e più partecipi nelle situazioni.
Partendo da esperienze concrete di cui le persone partecipanti al corso avevano fatto esperienza nel loro lavoro, sono state analizzate le diverse fasi del morire: dalla crisi iniziale alla possibile accettazione finale, seguendo lo schema base elaborato dalla psichiatra Kubler Ross che, a partire del 1965, ha svolto molti studi e ricerche volti a comprendere le fasi psicologiche che la persona ammalata attraversa, dalla diagnosi alla morte. Sicuramente il percorso passa attraverso degli stadi con problematiche e comportamenti diversi, che si susseguono o si alternano, ma non in maniera rigida, né uniforme, né sempre prevedibile.
Sono state quindi proposte delle tecniche di rilassamento e di presenza mentale che possono essere utili sia a chi accompagna che riproposte ai malati, per alleggerire le tensioni psicologiche.
L'insegnamento delle tecniche di accudimento basate sull'aptonomia è stato oggetto dei lavori del secondo week end. Sono tecniche che si basano sull'ampliamento del nostro spazio intimo a chi ci sta accanto, imparando ad accogliere, contenere, sostenere, consolare, rassicurare, secondo gli insegnamenti di Marie De Hennezel e di Frank Ostaseski.

"Non si può evitare a qualcuno di morire, ma è possibile "esserci", far sentire la nostra presenza, accompagnarlo, ascoltarlo. Ciascuno muore della propria morte, non ci sono morti buone o cattive, ma ci sono morti umane e disumane. La morte umana è un'esperienza che è condivisa con gli altri e trasforma coloro che sono intorno al morente. L'esperienza dell'accompagnamento umanizza chi la vive e comporta un forte scambio emozionale. La morte disumana è quella vissuta senza scambi, nell'abbandono e nella solitudine"
Marie De Hennezel

Terzo weekend
Nel corso del terzo ed ultimo weekend abbiamo rivisitato ancora la pratica del perdono, dell'accompagnamento spirituale del morente e dell'elaborazione del lutto.
Il dolore totale che attanaglia la persona in fase avanzata di malattia e i suoi cari ha anche una componente spirituale.

"Carattere fondamentale del vissuto di spiritualità (o esperienza delle realtà spirituali) è la convinzione che la realtà non sia limitata al mondo fisico, materiale, sensoriale, ma che esista una realtà spirituale o un modo spirituale di rapportarsi alla realtà (…) La spiritualità diviene un'arte di trascendenza (dell'Ego), operata dalla pluralità dei modi che le diverse culture e tradizioni hanno suggerito"
Riccardo Venturini

La formazione di chi assiste "spiritualmente" dovrebbe fondarsi innanzi tutto su un saper essere, su un talento o una sensibilità già presenti prima di dedicarsi all'accompagnamento dei malati terminali. Ogni operatore, dal volontario, al medico, all'assistente domiciliare, può essere potenzialmente un assistente spirituale, nella misura in cui, accanto alle specifiche mansioni professionali che ciascuno è chiamato a svolgere, sa anche rivolgere l'attenzione al significato di ciò che fa, ai valori etici e morali che sostengono la convivenza tra gli esseri umani, alla globalità dell'incontro col malato e con la famiglia, al valore aggiunto sotteso da ciascun bisogno, da ciascun sintomo, gesto, parola, dall'ambiente umano in cui la persona vive e muore.
Solo la capacità di assumere il punto di vista spirituale potrà far apparire il malato non solo come un "organismo" dolente da curare, non solo come un'unità psicosomatica sofferente, non solo come un elemento di un microsistema in crisi, ma anche come un corpo-persona portatore di valori, di significati, di storia di vita, di aspirazione all'autotrascendenza, e che ha diritto al rispetto, alla cura, al perdono e all'ascolto. Tutto ciò, ancora, vale anche per l'operatore.
Non si accede alla spiritualità della relazione di cura senza prima focalizzare lo sguardo spirituale verso se stessi.
Nell'ultimo incontro sono state proposte anche delle pratiche di individuazione e riconoscimento dei nostri più profondi attaccamenti, analizzando le reazioni emozionali davanti al processo della perdita e del lutto, per riscoprire la nostra innata capacità di abbracciare e di condividere la sofferenza degli altri come se fosse la nostra.
È stato quindi affrontato il tema dell'elaborazione del lutto e delle problematiche connesse, riconoscendo le dinamiche che si attivano nelle famiglie, in modo da saper loro offrire un valido sostegno in un momento tanto doloroso.
È un percorso di ricerca quello che con questo corso di formazione è stato proposto, un percorso che ogni volta si fa insieme e che richiede coraggio e flessibilità: ci si chiede di aprirsi, mettersi in gioco e costantemente fluire, lasciar andare, accettando la realtà dell'impermanenza, imparando ad accettarci e a volerci bene così come siamo, imparando ad accettare le persone e le cose così come sono, consapevoli che tale capacità di essere e di stare accanto arricchisce tanto chi dà quanto chi riceve, il tutto cercando di vivere la vita con più delicatezza e gentilezza; alla fine di tale esperienza ci si ritrova tutti più ricchi, più consci della precarietà della vita, ma anche della sua preziosità.

A questo primo corso di formazione hanno partecipato sedici donne. Sorge spontanea la domanda: perché sono le donne quelle che più si pre/occupano dell'assistenza ai morenti?
Forse perché è insito nel corpo delle donne un sapere inconscio relativamente al "passaggio" ed alla "perdita"? È forse per questo che le donne si trovano più a loro agio che non gli uomini accostandosi alle esperienze della nascita e della morte? Nelle loro doti particolari, incide l'esperienza dell'aver dato alla luce qualcuno e la conseguente sensorialità, il dire ed il fare con i gesti ciò di cui l'altro ha bisogno in quel momento?

Da: Polis, I, 2003