Un filo sottile lega i tre articoli (Apologia di un soldato buddhista, Ora conosco veramente la vergogna, Perché una scelta nonviolenta) che qui di seguito pubblichiamo.
Si tratta di tre testimonianze frutto di esperienze maturate in ambiti molto diversi che ci offrono punti di vista tra di loro, talvolta, contraddittori e parzialmente condivisibili.
Con la loro pubblicazione vorremmo offrire un primo tentativo di dialogo a più voci sui temi della nonviolenza, della pace e della guerra.


Apologia di un soldato buddhista


di Lawrence P. Rockwood

Ogni soldato americano porta al collo una catenina di metallo con due medagliette simili a quelle appese al collare dei cani. La loro funzione è di permettere l'identificazione del nome, codice fiscale, gruppo sanguigno e religione del proprietario in caso di morte. Sull'ultima riga delle mie medagliette si trova una dicitura da molti considerata curiosa: buddhista. Io sono uno dei pochi ufficiali buddhisti di origine non asiatica dell'esercito americano.
Essere un buddhista nell'esercito americano è una novità, sia per una questione geografica (se fossi un soldato birmano nessuno si sorprenderebbe) sia perché la relazione fra il buddhismo e la professione delle armi è un argomento decisamente poco considerato in Occidente. Ho notato che gli studenti di dharma occidentali spesso si affrettano a porre un muro fra la storia del buddhismo e la storia della guerra e certamente ne capisco il motivo. Molte persone, particolarmente dopo la guerra del Vietnam, si sentono naturalmente attratte verso tradizioni spirituali che appaiono incontaminate dalle ingiustizie della guerra. Così è abbastanza naturale che molti miei amici buddhisti euro-americani si trovino a disagio quando gli viene detto che i soldati delle società buddhiste sono stati capaci di adattarsi ai precetti buddhisti sulla nonviolenza esattamente come i soldati delle società giudaico-cristiane si sono conformati al quinto comandamento.
Se si considera la lunga relazione storica che è esistita fra il buddhismo e la professione delle armi in molte società asiatiche, trovo che l'accostamento del buddhismo ad un pacifismo inteso in senso stretto abbia qualcosa di presuntuoso. Mentre il pacifismo in senso stretto si basa sul rifiuto categorico della violenza, la tradizione che è divenuta nota col nome di "guerra giusta" tende ad alleviare l'ingiustizia con l'uso della forza militare. In occidente la dottrina della guerra giusta viene solitamente associata a S. Agostino, il teologo del settimo secolo il quale sosteneva che la guerra può rappresentare un mezzo verso un giusto fine. Sfortunatamente, non molto tempo dopo la chiesa cristiana usò le parole di S. Agostino per giustificare la sanguinosa serie di guerre che hanno avuto inizio con le Crociate.
D'altra parte, il più vicino alla formulazione di una dottrina buddhista della guerra giusta è stato nientemeno che Shaku Soen Zenji, il monaco buddhista giapponese che viene considerato come colui che introdusse lo Zen in Occidente. Dieci anni dopo il suo autorevole intervento al Parlamento Mondiale delle religioni, tenutosi a Chicago nel 1893, egli difese la partecipazione del suo paese alla guerra russo-giapponese e prestò servizio come cappellano per i soldati giapponesi che combattevano in Manciuria. Nella sua funzione di cappellano militare, Shaku Soen si atteneva ad una tradizione buddhista giapponese esistente da secoli. Nelle sue parole si ritrovano forti echi di S. Agostino: "La guerra è un male, e sicuramente un male grandissimo. Ma la guerra contro il male deve essere condotta con fermezza fino a conseguire l'obiettivo finale".
Si può dire che la relazione fra il buddhismo e la professione delle armi ha avuto inizio nel quarto secolo a.C. Prima di intraprendere la carriera monastica, il principe Siddharta faceva attivamente parte dell'antica casta indiana dei guerrieri (Kshatriya). Qualche secolo più tardi, l'Imperatore Asoka, grande guerriero e primo monarca buddhista, costruì uno stupa commemorativo laddove un tempo sorgeva la sala in cui il giovane principe si esercitava nelle arti della guerra. I vari codici militari erano già altamente evoluti al tempo del Buddha. Alcuni di essi includevano persino delle regole di condotta etica tese a limitare l'impiego della forza che ricordano gli attuali accordi internazionali sui diritti umani, tipo la Convenzione di Ginevra. Fin dai tempi del grande poema epico indiano Mahabarata, la casta guerriera degli Kshatriya è stata vincolata alle regole della dharmavijaya, che includevano la protezione dei civili e di coloro che non sono più in grado di opporre resistenza.
Le regole monastiche del vinaya vietavano ai monaci di prestare direttamente servizio militare e anche di partecipare a esercitazioni militari. E dal momento che la guerra è una delle principali cause della sofferenza umana, essa veniva considerata dal Buddha come legittima preoccupazione. Egli dimostrò molte volte di guardare alla guerra come a una realtà politica e sociale. Per esempio, il Buddha fermò una grande battaglia fra il suo clan, i Sakya, e i loro avversari, i Koliya. Si racconta che egli disse al re guerriero Yoddhajiva che la morte in battaglia non rappresenta un sentiero verso la salvezza, e che discusse con il re Prasenadi di Kosala sulle somiglianze fra la disciplina monastica e quella militare.
A partire dalla conversione dell'imperatore indiano Asoka nel terzo secolo a.C., un ruolo significativo per la diffusione del buddhismo in tutta l'Asia è stato svolto dal riconoscimento ufficiale del dharma da parte della classe guerriera in molte società asiatiche, particolarmente quelle che si trovavano all'apice del loro valore militare. Tuttavia, sebbene molti re e guerrieri abbiano seguito l'esempio di Asoka diventando monaci nella seconda parte della loro vita, non esistono esempi storici di capi politici o militari che, dopo aver abbracciato il buddhismo, abbiano imposto ai loro sudditi un disarmo unilaterale.
Esiste una distinzione importante, sebbene sottile, fra le basi etiche riguardanti l'uso della forza nelle società buddhiste rispetto a quelle occidentali. Questa distinzione appare evidente se si paragona il ruolo avuto nella diffusione del buddhismo dal primo monarca buddhista, l'imperatore Asoka, al ruolo svolto nella diffusione del cristianesimo dal primo monarca cristiano, l'imperatore romano Costantino. Dopo aver trascorso la maggior parte della loro vita come capi militari, entrambi gli imperatori emisero importanti editti a favore della tolleranza religiosa. Tuttavia, mentre l'editto di Costantino non riuscì a fermare il ciclo di guerre di religione che ebbe inizio con la sua morte e andò avanti per un migliaio di anni, gli editti di Asoka sulla tolleranza e sulla nonviolenza sono sopravvissuti alla sua morte e continuano ad esercitare la loro influenza ancora oggi.
L'editto di Asoka riuscì a stabilire una tradizione etica la quale, pur non mettendo la guerra fuori legge, almeno non sanciva l'uso della forza al solo scopo di fare proselitismo religioso. Anche se Asoka non abbandonò completamente l'impiego della forza e mantenne anche l'uso della pena di morte per alcuni casi estremi, il Mahatma Gandhi lo indicò come suo predecessore nella missione della nonviolenza.
In Cina il buddhismo raggiunse il suo apice culturale sotto la protezione della dinastia Tang, che era nota per mantenere la pace e la prosperità attraverso una forte ed efficiente struttura militare. È interessante notare che uno dei maggiori pericoli che insidiavano la sicurezza dell'impero Tang nel settimo ed ottavo secolo era l'espansione dell'influenza militare tibetana sotto la dinastia tibetana Yarlung, la stessa che contemporaneamente introduceva il buddhismo in Tibet. Vari secoli dopo, i tibetani riuscirono abilmente a convertire gli aggressivi e bellicosi mongoli al buddhismo.
In Giappone la classe militare influenzò lo sviluppo del buddhismo. La classe militare samurai contribuì a spostare gli equilibri di potere dalle vecchie scuole esoteriche Tendai e Shingon alle scuole buddhiste dello Zen, della Terra Pura e Nichiren. Allo stesso modo, nel sudest asiatico il trionfo della scuola Theravada sulla tradizione buddhista Mahayana fu in parte dovuto all'appoggio e alle conquiste militari del re birmano del XI secolo Anawrahta.
La relazione fra il buddhismo e la professione delle armi non è tuttavia limitata a guerrieri e monarchi buddhisti, ma ha coinvolto filosofi e letterati. Nella tradizione Mahayana i maestri buddhisti spesso davano consigli riguardo a quello che essi consideravano l'uso etico della forza. Per esempio, il grande filosofo indiano del II secolo Nagarjuna raccomandò al suo regale discepolo, il re Udayi, la necessità per un sovrano di fornire il proprio regno di una sicura protezione nei confronti del banditismo. Considerato il momento storico, ciò fa pensare più ad una struttura militare che a un'azione di polizia. Il filosofo Mahayana Asanga sostenne persino che è eticamente corretto destituire con la forza un monarca colpevole di aver fatto torturare i suoi sudditi.
Gli occidentali che seguono la mia stessa tradizione Vajrayana spesso sembrano trascurare che in Tibet, prima dell'invasione cinese, esistevano organizzazioni militari sia monastiche che laiche. I monaci soldati, chiamati dobdos, appartenevano ad una speciale categoria monastica addetta alla difesa dei tre principali monasteri Gelugpa nel Tibet centrale. Quando qualche anno fa ho viaggiato in India e Nepal, ho scoperto che anche oggi i monaci Gelugpa prestano servizio in forze speciali di frontiera (tutte tibetane) facenti parte dell'esercito della Repubblica Indiana. Al di là di ogni giudizio dottrinale sulla correttezza di tali pratiche monastiche, esse mostrano un punto di vista che non ho riscontrato fra gli studiosi e i praticanti di buddhismo in occidente rispetto alla carriera militare.
Persino Sulak Sivaraska - il noto buddhista pacifista tailandese in esilio che si oppose alle azioni repressive della dittatura militare del suo paese e criticò l'appoggio dato ai militari dalla gerarchia buddhista locale - ha auspicato la creazione di un'organizzazione militare internazionale comprendente una forza internazionale e permanente di pace.
Quando una società si rifiuta di affrontare le questioni militari significa che esiste un pericolo reale. Ciò è particolarmente vero nelle società democratiche, in cui la responsabilità è estesa ai singoli cittadini. Troppo spesso il concetto di legittimità viene usato per coprire un'effettiva indifferenza verso la sofferenza altrui. Un orribile esempio è rappresentato dai festeggiamenti che ci furono negli Stati Uniti nel 1972 in occasione della pace: infatti, nonostante i "nostri ragazzi" stessero effettivamente tornando a casa, nel sudest asiatico la pace rimaneva lontanissima. L'imponente genocidio che stava per essere perpetrato nei campi di sterminio della Cambogia avrebbe dimostrato di lì a poco che ciò che stavamo celebrando era in effetti la distanza fra noi e una guerra verso la quale non volevamo più prenderci alcuna responsabilità.
In generale, i movimenti pacifisti e le iniziative per la pace sono spesso troppo concentrati sulla prevenzione della guerra e tendono a non considerare le sofferenze di coloro che si trovano già nell'inferno della guerra. La guerra sta alla pace come la malattia sta alla salute. Così come sarebbe un comportamento insensibile da parte di un operatore sanitario lavorare solo per la prevenzione della malattia e non per la cura di essa, allo stesso modo a me sembra che preoccuparsi solo della prevenzione della guerra e non della sua conduzione sia un approccio inadeguato alle sofferenze causate dalla guerra stessa. Fino a poco tempo fa l'indifferenza delle nostre società occidentali ha dato via libera all'attuazione di una guerra genocida in Bosnia. La posizione presa dall'Occidente nei riguardi della situazione mondiale successiva alla guerra fredda mi fa pensare ad un uomo seduto in una stanza d'albergo con una pistola carica, che esita ad andare in soccorso di una donna che viene assassinata nella stanza accanto. Il fatto che egli non sia sicuro se debba essere in possesso della pistola non lo esime dall'obbligo immediato di difendere la persona vicina.
Di importanza fondamentale nel corso di qualsiasi riflessione etica sulla guerra, buddhista o non buddhista, è la deliberata distruzione delle popolazioni civili che avviene durante le guerre moderne, a dispetto dei trattati internazionali come la Convenzione di Ginevra. L'avvento delle armi da fuoco individuali, aumentando la distanza fisica fra i combattenti, ha costituito un primo passo verso la spersonalizzazione del nemico. Nell'ultimo secolo l'aviazione e la creazione di armi di distruzione di massa hanno aumentato questa distanza al punto che non vediamo neanche più l'avversario. Per un operatore militare che prende di mira un bersaglio, un aeroplano, un carro armato o persino un'intera città possono sembrare niente di più di un'immagine prodotta dal computer senza alcuna umanità o esistenza fisica.
Non sto elevando un inno nostalgico all'antico modo di fare la guerra. Anche in presenza di antichi codici come il dharmavijaya degli Kshatriya ai tempi del Buddha, le atrocità erano fin troppo frequenti. Tuttavia gli avvenimenti dell'ultimo secolo testimoniano che il passaggio della divisa dai guerrieri del passato, aggressivi e pronti al sacrificio, ai soldati moderni, irreggimentati e iperspecializzati, non ha fatto onore alla natura umana.
Sua Santità Tenzin Gyatso, il quattordicesimo Dalai Lama, una volta disse: "Anche durante la guerra è bene essere coscienti della sofferenza degli altri e del nostro disagio nel causargli dolore. La guerra è omicidio. È una cosa negativa al cento per cento. E il modo in cui al giorno d'oggi la guerra viene meccanizzata la rende ancore peggiore. Quando la guerra rimane 'umanizzata', ovvero quando rimane in contatto con i sentimenti umani, è molto meno incontrollabile".
Il maestro Zen vietnamita Thich Nhat Hanh, che è stato testimone degli orrori del Vietnam, ha scritto: "Non si possono semplicemente distinguere gli individui in violenti e nonviolenti. Questo è il motivo per cui le persone animate da ideali di amore, compassione e nonviolenza dovrebbero essere dappertutto, persino al Pentagono, in modo da sollecitare un atteggiamento nonviolento da parte di coloro che consideriamo nostri nemici". Mentre la guerra, la battaglia fra due eserciti, sta diventando sempre più una campagna militare diretta contro economie e società, appare sempre più chiaro che è il civile disarmato a costituire il bersaglio principale durante i conflitti militari. Si accetta tranquillamente che vengano sacrificati tante donne e tanti bambini della nazione nemica allo scopo di salvare anche solo un manipolo di nostri soldati. Siamo veramente in una fase post-eroica della storia militare.
Nel settembre del 1994 atterrai ad Haiti insieme alla Forza Multinazionale inviata con l'obiettivo di creare le condizioni di sicurezza necessarie per il ritorno della democrazia. Preoccupato per le violazioni dei diritti umani che avvenivano vicino alla sede dell'esercito americano, e avendo compreso che i miei superiori non avevano alcun piano per fermare quegli abusi, tentai di condurre una sorveglianza non autorizzata dei prigionieri rinchiusi nel penitenziario nazionale di Port-au-Prince ma venni processato dalla corte marziale per questo fatto.


L'Esercito tentò inizialmente di sminuire i miei sforzi giudicandoli come il gesto di un originale - un originale buddhista - il quale verosimilmente non avrebbe dovuto prestare servizio come ufficiale dei servizi segreti durante un'operazione militare. Non sono d'accordo. Il problema non è di aver cercato di portare nell'ambiente militare convinzioni estranee, come se ritenessi che i buddhisti detengono il monopolio dell'etica o della moralità. Le mie azioni si sono basate sulla tradizione militare americana e sulla legge internazionale, le quali sono complementari e non alternative ai principi etici della mia fede spirituale. Fortunatamente, grazie al sostegno dato al mio caso da parte di organizzazioni come PAX Christi (il movimento pacifista cattolico), il Friends Service Committee e i Lavoratori Cattolici, nonché da numerosi pastori protestanti, rabbini, preti, vescovi e suore, l'esercito decise saggiamente di lasciar cadere tutte le implicazioni religiose nella sua causa contro di me.
Dopo esser stato condannato lo scorso maggio dalla corte marziale all'allontanamento dall'Esercito invece che alla prigione, oggi mi sto appellando contro la mia condanna per disubbidienza e insubordinazione all'autorità superiore della legge internazionale. Continuerò a prestare attivamente servizio fino alla revisione definitiva del mio caso da parte del Ministro della Difesa e della Corte d'Appello militare.
Il Buddha consigliò ai suoi seguaci di accettare il mondo così com'è e, al tempo stesso, di usare ogni mezzo a nostra disposizione per alleviare le sofferenze degli altri. George Bernard Shaw disse: "Il torto peggiore nei confronti delle altre creature non è quello di odiarle, ma di essere indifferenti verso di loro; questa è la vera mancanza di umanità".
Le stesse parole possono valere anche per coloro che odiano le guerre, per coloro che le combattono e per coloro che fanno entrambe le cose.


Il Capitano Lawrence P. Rockwood è un ufficiale decorato ed un praticante di buddhismo tibetano che ha prestato servizio nel controspionaggio dell'esercito americano.


da Tricycle 1996, vol.V, n.3
Traduzione di Ann Zeunera