Ogni soldato americano
porta al collo una catenina di metallo con due medagliette simili a quelle appese
al collare dei cani. La loro funzione è di permettere l'identificazione
del nome, codice fiscale, gruppo sanguigno e religione del proprietario in caso
di morte. Sull'ultima riga delle mie medagliette si trova una dicitura da molti
considerata curiosa: buddhista. Io sono uno dei pochi ufficiali buddhisti di
origine non asiatica dell'esercito americano.
Essere un buddhista nell'esercito americano è una novità, sia
per una questione geografica (se fossi un soldato birmano nessuno si sorprenderebbe)
sia perché la relazione fra il buddhismo e la professione delle armi
è un argomento decisamente poco considerato in Occidente. Ho notato che
gli studenti di dharma occidentali spesso si affrettano a porre un muro fra
la storia del buddhismo e la storia della guerra e certamente ne capisco il
motivo. Molte persone, particolarmente dopo la guerra del Vietnam, si sentono
naturalmente attratte verso tradizioni spirituali che appaiono incontaminate
dalle ingiustizie della guerra. Così è abbastanza naturale che
molti miei amici buddhisti euro-americani si trovino a disagio quando gli viene
detto che i soldati delle società buddhiste sono stati capaci di adattarsi
ai precetti buddhisti sulla nonviolenza esattamente come i soldati delle società
giudaico-cristiane si sono conformati al quinto comandamento.
Se si considera la lunga relazione storica che è esistita fra il buddhismo
e la professione delle armi in molte società asiatiche, trovo che l'accostamento
del buddhismo ad un pacifismo inteso in senso stretto abbia qualcosa di presuntuoso.
Mentre il pacifismo in senso stretto si basa sul rifiuto categorico della violenza,
la tradizione che è divenuta nota col nome di "guerra giusta"
tende ad alleviare l'ingiustizia con l'uso della forza militare. In occidente
la dottrina della guerra giusta viene solitamente associata a S. Agostino, il
teologo del settimo secolo il quale sosteneva che la guerra può rappresentare
un mezzo verso un giusto fine. Sfortunatamente, non molto tempo dopo la chiesa
cristiana usò le parole di S. Agostino per giustificare la sanguinosa
serie di guerre che hanno avuto inizio con le Crociate.
D'altra parte, il più vicino alla formulazione di una dottrina buddhista
della guerra giusta è stato nientemeno che Shaku Soen Zenji, il monaco
buddhista giapponese che viene considerato come colui che introdusse lo Zen
in Occidente. Dieci anni dopo il suo autorevole intervento al Parlamento Mondiale
delle religioni, tenutosi a Chicago nel 1893, egli difese la partecipazione
del suo paese alla guerra russo-giapponese e prestò servizio come cappellano
per i soldati giapponesi che combattevano in Manciuria. Nella sua funzione di
cappellano militare, Shaku Soen si atteneva ad una tradizione buddhista giapponese
esistente da secoli. Nelle sue parole si ritrovano forti echi di S. Agostino:
"La guerra è un male, e sicuramente un male grandissimo. Ma la guerra
contro il male deve essere condotta con fermezza fino a conseguire l'obiettivo
finale".
Si può dire che la relazione fra il buddhismo e la professione delle
armi ha avuto inizio nel quarto secolo a.C. Prima di intraprendere la carriera
monastica, il principe Siddharta faceva attivamente parte dell'antica casta
indiana dei guerrieri (Kshatriya). Qualche secolo più tardi, l'Imperatore
Asoka, grande guerriero e primo monarca buddhista, costruì uno stupa
commemorativo laddove un tempo sorgeva la sala in cui il giovane principe si
esercitava nelle arti della guerra. I vari codici militari erano già
altamente evoluti al tempo del Buddha. Alcuni di essi includevano persino delle
regole di condotta etica tese a limitare l'impiego della forza che ricordano
gli attuali accordi internazionali sui diritti umani, tipo la Convenzione di
Ginevra. Fin dai tempi del grande poema epico indiano Mahabarata, la
casta guerriera degli Kshatriya è stata vincolata alle regole della dharmavijaya,
che includevano la protezione dei civili e di coloro che non sono più
in grado di opporre resistenza.
Le regole monastiche del vinaya vietavano ai monaci di prestare direttamente
servizio militare e anche di partecipare a esercitazioni militari. E dal momento
che la guerra è una delle principali cause della sofferenza umana, essa
veniva considerata dal Buddha come legittima preoccupazione. Egli dimostrò
molte volte di guardare alla guerra come a una realtà politica e sociale.
Per esempio, il Buddha fermò una grande battaglia fra il suo clan, i
Sakya, e i loro avversari, i Koliya. Si racconta che egli disse al re guerriero
Yoddhajiva che la morte in battaglia non rappresenta un sentiero verso la salvezza,
e che discusse con il re Prasenadi di Kosala sulle somiglianze fra la disciplina
monastica e quella militare.
A partire dalla conversione dell'imperatore indiano Asoka nel terzo secolo a.C.,
un ruolo significativo per la diffusione del buddhismo in tutta l'Asia è
stato svolto dal riconoscimento ufficiale del dharma da parte della classe guerriera
in molte società asiatiche, particolarmente quelle che si trovavano all'apice
del loro valore militare. Tuttavia, sebbene molti re e guerrieri abbiano seguito
l'esempio di Asoka diventando monaci nella seconda parte della loro vita, non
esistono esempi storici di capi politici o militari che, dopo aver abbracciato
il buddhismo, abbiano imposto ai loro sudditi un disarmo unilaterale.
Esiste una distinzione importante, sebbene sottile, fra le basi etiche riguardanti
l'uso della forza nelle società buddhiste rispetto a quelle occidentali.
Questa distinzione appare evidente se si paragona il ruolo avuto nella diffusione
del buddhismo dal primo monarca buddhista, l'imperatore Asoka, al ruolo svolto
nella diffusione del cristianesimo dal primo monarca cristiano, l'imperatore
romano Costantino. Dopo aver trascorso la maggior parte della loro vita come
capi militari, entrambi gli imperatori emisero importanti editti a favore della
tolleranza religiosa. Tuttavia, mentre l'editto di Costantino non riuscì
a fermare il ciclo di guerre di religione che ebbe inizio con la sua morte e
andò avanti per un migliaio di anni, gli editti di Asoka sulla tolleranza
e sulla nonviolenza sono sopravvissuti alla sua morte e continuano ad esercitare
la loro influenza ancora oggi.
L'editto di Asoka riuscì a stabilire una tradizione etica la quale, pur
non mettendo la guerra fuori legge, almeno non sanciva l'uso della forza al
solo scopo di fare proselitismo religioso. Anche se Asoka non abbandonò
completamente l'impiego della forza e mantenne anche l'uso della pena di morte
per alcuni casi estremi, il Mahatma Gandhi lo indicò come suo predecessore
nella missione della nonviolenza.
In Cina il buddhismo raggiunse il suo apice culturale sotto la protezione della
dinastia Tang, che era nota per mantenere la pace e la prosperità attraverso
una forte ed efficiente struttura militare. È interessante notare che
uno dei maggiori pericoli che insidiavano la sicurezza dell'impero Tang nel
settimo ed ottavo secolo era l'espansione dell'influenza militare tibetana sotto
la dinastia tibetana Yarlung, la stessa che contemporaneamente introduceva il
buddhismo in Tibet. Vari secoli dopo, i tibetani riuscirono abilmente a convertire
gli aggressivi e bellicosi mongoli al buddhismo.
In Giappone la classe militare influenzò lo sviluppo del buddhismo. La
classe militare samurai contribuì a spostare gli equilibri di potere
dalle vecchie scuole esoteriche Tendai e Shingon alle scuole buddhiste dello
Zen, della Terra Pura e Nichiren. Allo stesso modo, nel sudest asiatico il trionfo
della scuola Theravada sulla tradizione buddhista Mahayana fu in parte dovuto
all'appoggio e alle conquiste militari del re birmano del XI secolo Anawrahta.
La relazione fra il buddhismo e la professione delle armi non è tuttavia
limitata a guerrieri e monarchi buddhisti, ma ha coinvolto filosofi e letterati.
Nella tradizione Mahayana i maestri buddhisti spesso davano consigli riguardo
a quello che essi consideravano l'uso etico della forza. Per esempio, il grande
filosofo indiano del II secolo Nagarjuna raccomandò al suo regale discepolo,
il re Udayi, la necessità per un sovrano di fornire il proprio regno
di una sicura protezione nei confronti del banditismo. Considerato il momento
storico, ciò fa pensare più ad una struttura militare che a un'azione
di polizia. Il filosofo Mahayana Asanga sostenne persino che è eticamente
corretto destituire con la forza un monarca colpevole di aver fatto torturare
i suoi sudditi.
Gli occidentali che seguono la mia stessa tradizione Vajrayana spesso sembrano
trascurare che in Tibet, prima dell'invasione cinese, esistevano organizzazioni
militari sia monastiche che laiche. I monaci soldati, chiamati dobdos,
appartenevano ad una speciale categoria monastica addetta alla difesa dei tre
principali monasteri Gelugpa nel Tibet centrale. Quando qualche anno fa ho viaggiato
in India e Nepal, ho scoperto che anche oggi i monaci Gelugpa prestano servizio
in forze speciali di frontiera (tutte tibetane) facenti parte dell'esercito
della Repubblica Indiana. Al di là di ogni giudizio dottrinale sulla
correttezza di tali pratiche monastiche, esse mostrano un punto di vista che
non ho riscontrato fra gli studiosi e i praticanti di buddhismo in occidente
rispetto alla carriera militare.
Persino Sulak Sivaraska - il noto buddhista pacifista tailandese in esilio che
si oppose alle azioni repressive della dittatura militare del suo paese e criticò
l'appoggio dato ai militari dalla gerarchia buddhista locale - ha auspicato
la creazione di un'organizzazione militare internazionale comprendente una forza
internazionale e permanente di pace.
Quando una società si rifiuta di affrontare le questioni militari significa
che esiste un pericolo reale. Ciò è particolarmente vero nelle
società democratiche, in cui la responsabilità è estesa
ai singoli cittadini. Troppo spesso il concetto di legittimità viene
usato per coprire un'effettiva indifferenza verso la sofferenza altrui. Un orribile
esempio è rappresentato dai festeggiamenti che ci furono negli Stati
Uniti nel 1972 in occasione della pace: infatti, nonostante i "nostri ragazzi"
stessero effettivamente tornando a casa, nel sudest asiatico la pace rimaneva
lontanissima. L'imponente genocidio che stava per essere perpetrato nei campi
di sterminio della Cambogia avrebbe dimostrato di lì a poco che ciò
che stavamo celebrando era in effetti la distanza fra noi e una guerra verso
la quale non volevamo più prenderci alcuna responsabilità.
In generale, i movimenti pacifisti e le iniziative per la pace sono spesso troppo
concentrati sulla prevenzione della guerra e tendono a non considerare le sofferenze
di coloro che si trovano già nell'inferno della guerra. La guerra sta
alla pace come la malattia sta alla salute. Così come sarebbe un comportamento
insensibile da parte di un operatore sanitario lavorare solo per la prevenzione
della malattia e non per la cura di essa, allo stesso modo a me sembra che preoccuparsi
solo della prevenzione della guerra e non della sua conduzione sia un approccio
inadeguato alle sofferenze causate dalla guerra stessa. Fino a poco tempo fa
l'indifferenza delle nostre società occidentali ha dato via libera all'attuazione
di una guerra genocida in Bosnia. La posizione presa dall'Occidente nei riguardi
della situazione mondiale successiva alla guerra fredda mi fa pensare ad un
uomo seduto in una stanza d'albergo con una pistola carica, che esita ad andare
in soccorso di una donna che viene assassinata nella stanza accanto. Il fatto
che egli non sia sicuro se debba essere in possesso della pistola non lo esime
dall'obbligo immediato di difendere la persona vicina.
Di importanza fondamentale nel corso di qualsiasi riflessione etica sulla guerra,
buddhista o non buddhista, è la deliberata distruzione delle popolazioni
civili che avviene durante le guerre moderne, a dispetto dei trattati internazionali
come la Convenzione di Ginevra. L'avvento delle armi da fuoco individuali, aumentando
la distanza fisica fra i combattenti, ha costituito un primo passo verso la
spersonalizzazione del nemico. Nell'ultimo secolo l'aviazione e la creazione
di armi di distruzione di massa hanno aumentato questa distanza al punto che
non vediamo neanche più l'avversario. Per un operatore militare che prende
di mira un bersaglio, un aeroplano, un carro armato o persino un'intera città
possono sembrare niente di più di un'immagine prodotta dal computer senza
alcuna umanità o esistenza fisica.
Non sto elevando un inno nostalgico all'antico modo di fare la guerra. Anche
in presenza di antichi codici come il dharmavijaya degli Kshatriya ai
tempi del Buddha, le atrocità erano fin troppo frequenti. Tuttavia gli
avvenimenti dell'ultimo secolo testimoniano che il passaggio della divisa dai
guerrieri del passato, aggressivi e pronti al sacrificio, ai soldati moderni,
irreggimentati e iperspecializzati, non ha fatto onore alla natura umana.
Sua Santità Tenzin Gyatso, il quattordicesimo Dalai Lama, una volta disse:
"Anche durante la guerra è bene essere coscienti della sofferenza
degli altri e del nostro disagio nel causargli dolore. La guerra è omicidio.
È una cosa negativa al cento per cento. E il modo in cui al giorno d'oggi
la guerra viene meccanizzata la rende ancore peggiore. Quando la guerra rimane
'umanizzata', ovvero quando rimane in contatto con i sentimenti umani, è
molto meno incontrollabile".
Il maestro Zen vietnamita Thich Nhat Hanh, che è stato testimone degli
orrori del Vietnam, ha scritto: "Non si possono semplicemente distinguere
gli individui in violenti e nonviolenti. Questo è il motivo per cui le
persone animate da ideali di amore, compassione e nonviolenza dovrebbero essere
dappertutto, persino al Pentagono, in modo da sollecitare un atteggiamento nonviolento
da parte di coloro che consideriamo nostri nemici". Mentre la guerra, la
battaglia fra due eserciti, sta diventando sempre più una campagna militare
diretta contro economie e società, appare sempre più chiaro che
è il civile disarmato a costituire il bersaglio principale durante i
conflitti militari. Si accetta tranquillamente che vengano sacrificati tante
donne e tanti bambini della nazione nemica allo scopo di salvare anche solo
un manipolo di nostri soldati. Siamo veramente in una fase post-eroica della
storia militare.
Nel settembre del 1994 atterrai ad Haiti insieme alla Forza Multinazionale inviata
con l'obiettivo di creare le condizioni di sicurezza necessarie per il ritorno
della democrazia. Preoccupato per le violazioni dei diritti umani che avvenivano
vicino alla sede dell'esercito americano, e avendo compreso che i miei superiori
non avevano alcun piano per fermare quegli abusi, tentai di condurre una sorveglianza
non autorizzata dei prigionieri rinchiusi nel penitenziario nazionale di Port-au-Prince
ma venni processato dalla corte marziale per questo fatto.
L'Esercito tentò inizialmente di sminuire i miei sforzi giudicandoli
come il gesto di un originale - un originale buddhista - il quale verosimilmente
non avrebbe dovuto prestare servizio come ufficiale dei servizi segreti durante
un'operazione militare. Non sono d'accordo. Il problema non è di aver
cercato di portare nell'ambiente militare convinzioni estranee, come se ritenessi
che i buddhisti detengono il monopolio dell'etica o della moralità. Le
mie azioni si sono basate sulla tradizione militare americana e sulla legge
internazionale, le quali sono complementari e non alternative ai principi etici
della mia fede spirituale. Fortunatamente, grazie al sostegno dato al mio caso
da parte di organizzazioni come PAX Christi (il movimento pacifista cattolico),
il Friends Service Committee e i Lavoratori Cattolici, nonché da numerosi
pastori protestanti, rabbini, preti, vescovi e suore, l'esercito decise saggiamente
di lasciar cadere tutte le implicazioni religiose nella sua causa contro di
me.
Dopo esser stato condannato lo scorso maggio dalla corte marziale all'allontanamento
dall'Esercito invece che alla prigione, oggi mi sto appellando contro la mia
condanna per disubbidienza e insubordinazione all'autorità superiore
della legge internazionale. Continuerò a prestare attivamente servizio
fino alla revisione definitiva del mio caso da parte del Ministro della Difesa
e della Corte d'Appello militare.
Il Buddha consigliò ai suoi seguaci di accettare il mondo così
com'è e, al tempo stesso, di usare ogni mezzo a nostra disposizione per
alleviare le sofferenze degli altri. George Bernard Shaw disse: "Il torto
peggiore nei confronti delle altre creature non è quello di odiarle,
ma di essere indifferenti verso di loro; questa è la vera mancanza di
umanità".
Le stesse parole possono valere anche per coloro che odiano le guerre, per coloro
che le combattono e per coloro che fanno entrambe le cose.
Il Capitano Lawrence P. Rockwood è un ufficiale decorato ed un praticante
di buddhismo tibetano che ha prestato servizio nel controspionaggio dell'esercito
americano.
da Tricycle 1996, vol.V, n.3
Traduzione di Ann Zeunera